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 2013  settembre 15 Domenica calendario

«INFILIAMOCI I GUANTONI PER MILANO»

L’INTERVISTA DONATELLA VERSACE –
«Il marchio Versace ha potenzialità enormi. I nostri advisor stanno selezionando un investitore che entrerà con una quota di minoranza con un aumento di capitale. Noi non vendiamo. Ma piccolo non è né bello né conveniente: bisogna crescere».
Chioma biondissima d’ordinanza, little black dress con applicazioni in Pvc e decolleté dal tacco assassino, il celebre diamante giallo all’anulare destro, Donatella Versace si presenta puntuale nella sede del Sole 24 Ore per una testimonianza al 3° Master luxury and fashion management. Un intervento a tutto campo che spazia dai giovani talenti al mondo digitale, dal ruolo di Milano e delle sfilate alla sua azienda (408,7 milioni di ricavi nel 2012, con un Ebitda di 44,5 milioni), controllata dalla figlia Allegra Versace Beck al 50%, dal fratello maggiore Santo con il 30 e da lei stessa con il 20. Goldman Sachs e Banca Imi sono alla short list ed entro fine ottobre dovrebbe essere annunciato il nome del socio. Poi, nel medio termine, il decollo verso la quotazione. Signora Versace, per voi è un momento di svolta... Mi sono aggrappata con le unghie alla mia azienda, che ha attraversato momenti molto difficili dopo la morte di mio fratello Gianni. Ho fatto qualche sbaglio – più di uno, lo ammetto – però poi ho trovato la mia voce, ho trovato la forza di combattere per quello che veramente penso. Risorgeremo alla grande. Avete ricevuto molte offerte? Certo, ma sto guardando la qualità degli investitori e la capacità di condividere il business plan dei prossimi anni costruito con il mio team, a partire dal ceo Gian Giacomo Ferraris, di cui vado fiera: oggi conta solo la squadra, non il singolo. È appena rientrata da Macao, dove firmerà un resort realizzato in partnership con Sjm, il leader nel business delle scommesse, che alla Borsa di Hong Kong capitalizza oltre 10 miliardi di euro... Sarà un resort cinque stelle e oltre. Mi occuperò anche del concept: voglio che diventi un destination hotel, che sia il principale motivo del viaggio dei clienti. Come delle sfilate Versace? È troppo presto per dirlo. Era la sua prima volta a Macao? Sì, a differenza della Cina. Quel che mi impressiona è quanto studiano i giovani cinesi: non smettono mai di studiare e sono curiosi di tutto. Essere curiosi è il mio motto: bisogna essere informati di tutto quel che succede nella società, nella musica, nella moda, nell’arte, di internet che ha stravolto le nostre vite. Si informa sulla carta o sull’iPad? Amo la carta, compro i giornali, ma li leggo sull’iPad. Proprio la mia passione per il digitale mi ha suggerito di organizzare lo scorso maggio un evento della collezione giovane Versus a New York dove ho invitato soltanto bloggers. E, grazie a un accordo con Google, 15 minuti di domande e risposte hanno registrato in Rete da 1,5 milioni di viewers. Grandioso, ma... Ma? La cosa più importante è stata convincere il management nell’affrontare la nuova organizzazione, anche perché i prodotti che abbiamo proposto erano subito disponibili per lo shopping. Quel che piace ora ai consumatori. Pensa di farlo anche con la collezione principale? I tempi della moda cambiano, ma molti stilisti vivono in una torre d’avorio e non si sono ancora accorti che quello che conta è la velocità con cui si muove il digitale. Le sfilate hanno ancora un senso? In passerella si vedono abiti che saranno nei negozi dopo 3-4 mesi, quando oltretutto il meteo sarà incompatibile, come in questi giorni di caldo con le vetrine zeppe di cappotti. Ormai le sfilate sono viste da molta più gente in Rete rispetto alla platea di compratori e giornalisti in sala. Forse si andrà verso un minor numero di ospiti dal vivo e una maggiore connessione con il mondo digitale. Mi piacerebbe coinvolgere siti che non c’entrano con la moda: musica, arte, cultura, blog di giovani artisti che sul web chiacchierano di underground. Insomma, mischiare il più possibile. Il mondo della moda sta cambiando alla giusta velocità? Il cambiamento in corso è tra i più significativi degli ultimi vent’anni: è tempo di accorgersene e tutti i protagonisti del settore devono evolversi. La competizione con New York, Londra e Parigi va presa sul serio: dobbiamo infilarci i guantoni e lottare per questa città e per il futuro dei nostri giovani. Non possiamo aspettare che siano altri a farlo per noi. In Italia quando si parla di un giovane stilista ha almeno 35 anni. Come mai? Un giovane stilista dovrebbe averne 19 o 20. Christopher Kane, che ha lavorato 5 anni con me e che ora è passato con il colosso Kering, l’ho scelto alla Central Saint Martins, la scuola di Londra che ha sfornato molti talenti, mentre faceva l’esame. Mi aveva chiesto se gli prestavo del metallo: gliene ho mandati 10 chili e lui l’ha usato incastrandolo in un abito di pizzo e silicone. Siamo rimasti a bocca aperta. Le piace stare in mezzo ai giovani designer? Tantissimo: insegno e imparo allo stesso tempo. Dopo la "partenza" di Kane ho selezionato J.W. Anderson, irlandese classe 1984, vincitore del British Fashion Award 2012 nella categoria emergenti. Ha disegnato la capsule collection Versus per New York e la sua moda è l’opposto della mia: mi piace per quello. Nel nostro Paese non trova giovani talenti? Pochi. Tanto che li scelgo stranieri, ma è difficile assumere un creativo che voglia vivere a Milano: preferiscono lavorare a New York, Shanghai, Parigi, Berlino, forse Roma. Così fanno 3-4 giorni qui e poi volano via, si ispirano in altre città e tornano a Milano. D’altro canto, che cosa fa un ragazzo a Milano? Che cosa va a vedere al teatro? A una persona che parla inglese che cosa offriamo? I film tradotti in lingua italiana dopo diciotto mesi che sono a Londra? La verità è che siamo vent’anni in ritardo e che non abbiamo nulla da offrire in lingua madre anche ai turisti che arrivano qui da tutto il mondo. Finisce che i giovani vanno nei bar a bere. Che cosa si dovrebbe fare per i giovani stilisti? Bisogna attirarli qui e sponsorizzare la crescita del loro talento. Ma è chiaro che non bisogna selezionare il primo ragazzo che passa, magari per paura che ti faccia concorrenza. No! Ognuno di noi deve scegliere il più bravo e non avere paura di confrontarsi, anche se a volte il confronto con i ragazzi è doloroso perché ti sembra di avere perso un pezzo di storia della moda. Del nuovo corso alla Camera nazionale della moda che cosa pensa? È un passo avanti, anche se utilizzare questo vocabolo in Italia fa un po’ ridere. Per i ragazzi la cosa più facile è scappare via da Milano e dall’Italia? È la più facile, ma non bisogna assolutamente rassegnarsi. Per lavorare bene ci vuole una vita da vivere: è la vita che ti regala le emozioni, conoscere persone e scambiarsi idee è l’unica strada. Perché Milano è finita così? Milano è stata schiacciata completamente dalla politica, perché la politica ha determinato tutto il corso dello sviluppo del Paese, anche del pensiero. Serviva più attenzione alle eccellenze italiane: penso a un patrimonio culturale che se lo sogna tutto il mondo e di cui dobbiamo essere fieri. Qualcuno si è impegnato nell’insegnamento ai giovani del valore della cultura? Qualcuno ha avuto il coraggio di utilizzare in modo forte tutto questo patrimonio? Abbiamo un passato ineguagliabile, ma intanto crolla Pompei. Che vergogna. Come ci si differenzia oggi nel campo della creatività? È finito il tempo in cui lo stilista chiudeva gli occhi e sfornava l’idea, perché per ispirarsi bastava sfogliare un libro del passato. Il mondo è stato rivoluzionato da internet, quindi le idee vengono anche in Rete. Ma nella mia azienda quello che conta è innanzitutto la conoscenza di tutto quello che sta succedendo intorno a te, di che cosa dicono i giovani, di che cosa vorrebbero fare, di che cosa non possono fare. In ultima analisi, l’idea fa parte della sociologia. Che cosa suggerirebbe ai giovani? Di non avere paura delle idee, di non guardare indietro nel proprio lavoro: il passato è passato ed è stato scritto per fare il presente. E devono avere il coraggio di proporre le proprie idee anche se possono creare delle reazioni negative. Studiare e mettere tutta l’energia che si ha in corpo. I cinesi studiano il triplo. Non bisogna dimenticarlo mai! La liaison tra lei e Lady Gaga fa discutere: molti pensano sia un’operazione di marketing, tanto più ora che la popstar le ha addirittura dedicato una canzone. Nessuno ha tanti soldi da potersi permettere di pagare Lady Gaga perché la citi in una canzone! Deve costare una cifra inimmaginabile. Queste cose succedono solo se hai un rapporto di amicizia: le ho addirittura concesso gli abiti dell’archivio storico di Gianni, mai successo prima. Quando studiava pianoforte da ragazza la sua insegnante le diceva che suonava in modo troppo strano e che non avrebbe mai combinato nulla nella vita. Lei le ha dedicato una canzone dal palco del concerto di San Siro. L’ultima domanda è su suo fratello Gianni. Era la sua musa? Forse più la sua disturbatrice! Gianni era un genio, un talento incredibile, e tutto quello che so me lo ha insegnato lui. Non ho mai pensato di fare niente di diverso dalla moda, anche se ho studiato lettere, lingue e letterature straniere. Gianni mi ha coinvolto fin dagli inizi della sua carriera nel suo lavoro. Frequentavo l’università a Firenze e lui aveva il primo lavoro a Bologna. Ogni weekend veniva a prendermi, trascorrevamo il weekend lavorando e confrontandoci: è stato il miglior mentore che si possa desiderare. L’insegnamento più importante? Rischiare, come aveva fatto lui che all’epoca ha lanciato una moda mai vista prima, anche criticata da molti, ma diversa da tutto quello che c’era in circolazione. Diversità è un vocabolo che troppi non accettano ancora oggi.