Morya Longo, Il Sole 24 Ore 15/9/2013, 15 settembre 2013
WALL STREET, SVOLTA FED SULLA LIQUIDITÀ
La Federal Reserve non potrebbe avere occasione migliore, se non il quinto anniversario del crack di Lehman Brothers che cade oggi, per ridurre i super-stimoli monetari che avviò proprio dopo il disastroso default della banca d’affari nel 2008. E in effetti cinque anni dopo l’inizio del cosiddetto «quantitative easing», e dopo avere inondato i mercati di circa 3mila miliardi di dollari freschi di stampa, il presidente della Fed Ben Bernanke mercoledì prossimo potrebbe annunciare la storica svolta: la riduzione delle iniezioni di liquidità, attualmente pari a 85 miliardi di dollari al mese. Probabilmente toglierà solo 10-20 miliardi. Ma anche questo costituirebbe una svolta epocale: l’era del denaro facile negli Usa inizierebbe piano piano a volgere al termine.
Eppure gli investitori, fino a poche settimane fa ultra-convinti che la data buona per lo storico annuncio sarebbe stata il 18 settembre, ora sono un po’ meno persuasi. Secondo l’ultimo sondaggio di Bloomberg solo il 38% di loro ritiene che la riduzione degli stimoli monetari arriverà già mercoledì. Più possibilista un sondaggio del Wall Street Journal, secondo il quale il 67% degli economisti è invece convinto che la svolta arriverà subito. Un motivo per essere scettici in effetti ci sarebbe: la ripresa economica americana è ancora zoppa. È ancora "drogata" dall’esuberanza dei mercati finanziari. Perché, cinque anni dopo l’avvio dei super stimoli, questo dicono i dati: la grande pioggia di dollari ha dato grandi benefici ai mercati finanziari, ma anche grandi squilibri all’economia reale.
Wall Street vince
La Borsa Usa dal novembre 2008, quando la Fed avviò il primo «quantitative easing» e dunque le prime iniezioni di liquidità, ha guadagnato il 98,2%. I mercati obbligazionari hanno fatto ancora meglio: i titoli di Stato Usa (oggetto di acquisti da parte della Fed) hanno ridotto i rendimenti dal 4% del novembre 2008 all’1,62% del maggio scorso. Ora sono risaliti al 2,89%, ma proprio in attesa della riduzione degli stimoli Fed.
Più clamoroso ancora il rally delle obbligazioni aziendali ad alto rischio: in America quelle con rating "BB" nel novembre 2008 erano costrette ad offrire un rendimento del 15,9% per trovare acquirenti, mentre ora pagano un modesto 5%. Chi ha comprato questi titoli nel 2008, insomma, oggi porta a casa un guadagno da capogiro. Così, in un contesto di tale euforia, tutto sembra essere migliorato. Il Pil è tornato a crescere: dal 2009 ha recuperato il 10,3%. Le aziende, secondo i dati dei Flow of Funds, hanno mediamente aumentato gli utili lordi del 50,30%. E la disoccupazione è diminuita (dal 10% dell’ottobre 2009 al 7,3% attuale).
Il mondo reale perde
Eppure questi dati nascondono una realtà decisamente meno florida. Innanzitutto la ripresa dell’economia, che è innegabile, ha interessato solo una minima parte della popolazione. Basta guardare l’evoluzione del reddito delle famiglie Usa. Dal 2009 ad oggi, secondo una ricerca dell’Università di Berkeley, l’1% più ricco della popolazione ha aumentato il reddito reale del 31,40%. Il restante 99% degli americani ha invece recuperato solo un misero 0,4%. Il motivo è probabilmente legato al boom di Wall Street, che ha "ingrassato" i patrimoni dei super ricchi dimenticandosi quelli di tutti gli altri. Insomma: più che migliorare, l’economia ha allargato la forbice tra ricchi e poveri. Tanto che, secondo un sondaggio dell’Associated Press, l’80% degli americani adulti si trova vicino al limite della povertà.
Anche se si guarda il mercato del lavoro, si scopre che non ci sono solo rose e fiori. È vero infatti che il tasso di disoccupazione è sceso di 2,7 punti percentuali dai massimi del 2009. Ma questo è accaduto più per effetto della riduzione della complessiva forza-lavoro (che si calcola sommando i lavoratori e coloro che cercano un impiego), che per un effettivo aumento dei posti. Dal 2009 ad oggi, secondo il Bureau of Labour Statistics, il numero di americani fuori dal mercato del lavoro è infatti salito da 79 milioni a 90 milioni. Questo è dovuto un po’ al fatto che sta andando in pensione la generazione del baby-boom, ma un po’ anche al fatto che molti americani sono scoraggiati e non cercano più un impiego. Morale: tra ingressi e uscite, la stagione delle grandi manovre monetarie ha aumentato il numero di lavoratori stipendiati di sole 70mila persone. «Peanuts» (noccioline) direbbero negli Usa, a fronte di una popolazione di 316 milioni.
A ben guardare neppure la grande crescita degli utili aziendali è così eccezionale come sembra. Un’accurata analisi di Bridgewater dimostra infatti che l’aumento degli utili è avvenuto in presenza di un minore incremento del fatturato. Questo ha un solo significato: per registrare profitti in crescita, le aziende americane hanno ridotto i costi. Insomma: gli stipendi.
Di fronte a una realtà così squilibrata, la Fed si trova dunque di fronte a un dilemma. Da un lato dovrebbe ridurre gli stimoli, dato che ormai stanno producendo più bolle finanziarie che benefici reali. Dall’altro dovrebbe invece mantenerli, perché eliminandoli rischia di sgonfiare anche l’entusiasmo borsistico e dunque quella specie di ripresa che gli Usa stanno vivendo ora. Forse è per questo che, alla fine, Bernanke sceglierà la via di mezzo: ridurre gli stimoli, ma solo di poco. Il presidente Fed ascolterà probabilmente il paradossale e sarcastico suggerimento di un vecchio giocatore di baseball, Yogi Berra: «Se arrivi a un bivio, imboccalo».