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 2013  settembre 15 Domenica calendario

LA MORTE COLOR MOSTARDA CALO’ SULLE TRINCEE DI YPRES

Fin dall’antichità si è cercato, in qualche modo, di disciplinare la guerra e a volte di limitarne alcuni eccessi, anche se è soltanto in età moderna, a partire dal Settecento — non a caso nell’epoca della nascita dei «diritti umani» — che sono stati assunti impegni concreti in questa direzione. Hanno funzionato? O l’utopia di combattere in modo più «umano», proprio quando la tecnologia iniziava a permettere distruzioni più ampie e continue, si è rivelata una mera illusione?
Nella discussione che ha luogo oggi — e che ha sullo sfondo la guerra in Siria e l’uso di armi chimiche proibite da parte del governo di Assad — gli elementi da dibattere sono diversi e spesso si sovrappongono. Vi è chi pensa che ogni guerra sia simile a un’altra e che le uccisioni di massa siano sempre avvenute e non meritino l’attenzione e quella casistica, a volte esasperata, che è stata costruita nell’Otto e Novecento. O chi ritiene che le istituzioni e le regole internazionali sulle modalità di fare la guerra siano creazioni ipocrite, inutili e addirittura dannose. Ma anche tra gli altri vi è discussione se debba prevalere una regola (solo l’Onu ha diritto di stabilire l’intervento) o un’altra (l’obbligo di fermare con ogni mezzo chi commette crimini contro l’umanità), se il timore di effetti peggiori non debba fermare la «responsabilità di proteggere» le vittime o se la paura del proliferare di crimini non debba spingere a intervenire, pur con il rischio di ripetere fallimenti già sperimentati nel lontano e vicino passato.

Il punto di partenza è naturalmente quello di prendere sul serio le intenzioni di rendere la guerra più umana, di evitare sofferenze inutili, di impedire il coinvolgimento dei civili, anche se la loro codifica è stata, da un punto di vista pratico, spesso fallimentare. E queste intenzioni erano quelle di vietare o limitare armi capaci di distruggere e colpire i non combattenti o di aumentare sofferenze inutili ai militari e una distruzione sproporzionata del nemico.
Agenti chimici vennero usati già nell’antichità (sostanze che causavano nausea nell’antica Cina o producevano diarrea durante l’assedio di Cirra nel VII secolo a.C.; l’affumicamento con zolfo, resina e altre sostanze nella guerra del Peloponneso; la mistura di zolfo, idrogeno e cloro da parte dei bizantini o l’uso del fumo di arsenico nell’assedio turco di Belgrado nel 1456), ma vennero raffinati e usati con maggiore frequenza a partire dall’Ottocento: i proiettili incendiari durante la guerra civile americana da parte dei confederati, l’idrogeno da parte di Napoleone III, derivati dallo zolfo nell’assedio di Sebastopoli durante la guerra di Crimea (quando il premier britannico lord Palmerston rifiutò di usare mitragliatrici a vapore perché «troppo brutali per una guerra civilizzata»), bombe ripiene di gas tossici nel conflitto anglo-boero. L’uso di queste sostanze era condannato (per il Senato romano «le guerre si debbono combattere con le armi, non con il veleno», per il giurista olandese Hugo Grotius era «proibito uccidere chiunque con il veleno»), ma solo nel 1675 un accordo tra Francia e Impero germanico a Strasburgo proibì le «bombe velenose».
È comunque nell’Ottocento che la questione viene affrontata in modo sistematico: il codice Lieber, utilizzato da Lincoln nel 1863 durante la guerra civile, proibiva espressamente nell’articolo 16 l’uso di veleni in qualsiasi forma, ma costituiva una legge nazionale. A un atto formulato da più Paesi si arriva con la Dichiarazione di Bruxelles del 1874, non ancora un accordo, ma un progetto che, dopo una lunga trattativa, verrà inserito dentro la prima Convenzione dell’Aja del 1899 (nelle norme inserite nei regolamenti annessi si vieta in generale l’uso di «armi, proiettili o materiali capaci di causare lesioni eccessive» e in particolare l’uso di veleni o armi avvelenate; e viene approvata una speciale dichiarazione che vieta i «proiettili il cui solo scopo sia la diffusione di gas asfissianti o dannosi»). In questa convenzione, per la prima volta, viene inserita la proibizione — la cosiddetta clausola Martens — di infrangere «i principi del diritto internazionale quali risultano dagli usi stabiliti fra le nazioni civili, dalle leggi di umanità e dalle esigenze della coscienza pubblica».
Quando viene approvata la prima Convenzione dell’Aja (ripresa identica, in fatto di gas e veleni, nella seconda conferenza del 1907), l’idea di riempire proiettili con gas è ancora solo un’ipotesi, non una realtà: che verrà però sperimentata in modo primitivo nella guerra anglo-boera ed entrerà ufficialmente nella storia il 22 aprile 1915 nella battaglia di Ypres, in Belgio, quando l’esercito tedesco rilasciò 168 tonnellate di gas a base di cloro (chiamato dagli inglesi «mustard gas» per il suo colore e poi divenuto noto come «iprite» dal luogo della battaglia). Le vittime tra gli alleati furono 20 mila (un quarto uccisi), ma alla fine della guerra in entrambi i campi furono un milione e 300 mila (91 mila morti), in seguito a 66 milioni di bombe ripiene di gas lanciate da entrambi gli eserciti.
Nel periodo tra le due guerre si lavora ancora per mettere fuori legge le armi chimiche (anche se Churchill nel 1920 suggerisce di usarle contro i ribelli in Iraq) e nel 1925 viene approvato a Ginevra il Protocollo concernente la proibizione di usare in guerra gas asfissianti, tossici o simili e mezzi batteriologici, che costituirà il più completo documento su questo tema, ma non impedirà l’uso dei gas in Etiopia da parte del fascismo nel 1935 e da parte dei giapponesi in Cina nel 1939 e 1941 (gli Stati Uniti lo approveranno solamente nel 1975).

Le Convenzioni di Ginevra approvate nel 1949 ripresero quanto già stabilito in passato, dopo che nel corso della Seconda guerra mondiale i gas non erano stati praticamente usati nelle operazioni belliche, ma massicciamente impiegati invece (il famigerato Zyklon B) nello sterminio degli ebrei da parte del nazismo. Accuse di un uso di gas nell’immediato dopoguerra vennero avanzate da entrambi i contendenti nella guerra civile cinese, nei confronti dei francesi in Indocina nel 1947, dell’esercito israeliano da parte egiziana nel 1949 e nello stesso anno da parte dei guerriglieri greci contro il governo ellenico; in Corea gli americani furono accusati di avere sganciato bombe piene di gas velenoso nel 1951 sulla città di Nampo, l’esercito francese di averle usate in Algeria e il governo cubano di Batista contro i guerriglieri nel 1957.
Nel corso della guerra in Vietnam, gli Stati Uniti sostennero che i gas diserbanti e di altra natura da loro gettati in gran quantità non erano tra quelli proibiti, anche se la maggior parte dei Paesi ritenne che la proibizione di usare armi chimiche e biologiche in guerra fosse assoluta, come venne riaffermato dalla risoluzione 2.603 delle Nazioni Unite nel 1969.
È a partire dagli anni sessanta che si fa strada la necessità di rivedere l’intera questione sulla base dei nuovi sviluppi scientifici, ma soltanto nel 1993, al termine della Guerra fredda, si potrà giungere a una nuova convenzione sulle armi chimiche, dopo che esse erano state abbondantemente utilizzate dall’Iraq nella guerra con l’Iran negli anni Ottanta.
Approvata a Parigi il 13 gennaio 1993, la Convenzione ha formulato in modo dettagliato non solo il divieto di uso, ma anche di produzione e vendita delle armi chimiche, stabilendo le forme e i tempi della distruzione di quelle esistenti. La convenzione è stata approvata dalla stragrande maggioranza dei Paesi, con l’esclusione di Angola, Egitto, Nord Corea e Siria. Nel dopoguerra si era imposta nella coscienza collettiva l’idea che le armi di distruzione di massa (quelle capaci di uccidere in modo massiccio e indiscriminato i non combattenti) costituissero una «novità», cui si poteva rispondere soltanto con un divieto totale. Ma solo con la fine della Guerra fredda questa consapevolezza si è trasformata in atti che avrebbero dovuto vincolare l’insieme degli Stati a rispettare il divieto e, nel caso in cui fosse stato infranto, a cercare con ogni mezzo di interromperne l’uso e impedirlo per il futuro.
Marcello Flores