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 2013  settembre 15 Domenica calendario

L’ALTERNA FAMA DI TEODERICO IL GOTO PRIMO RE D’ITALIA

Quando Eugenio Maccagni si trovò a scolpire le immagini delle città italiane nel monumento a Vittorio Emanuele II, per Ravenna scelse il volto di Teodora dal mosaico in San Vitale. A leggere ora la biografia di Teoderico (Il Mulino) che Claudio Azzara ha scritto mettendo a confronto reperti archeologici, fonti scritte e una variatissima bibliografia, si direbbe che la scelta giusta sarebbe stata Teoderico (più comunemente, ma meno correttamente noto come Teodorico).
Teoderico, il re goto, fu il primo re d’Italia. In un medaglione d’oro che lo ritrae, egli è descritto come Rex e Pius princeps e dimostrò di saper essere re e pio quando gestì, lui ariano, ovvero eretico, con equilibrio e indipendenza la questione che era sorta per l’elezione del Papa, che vedeva contrapposti i candidati Simmaco e Lorenzo. I goti si erano stabiliti in Italia come foederati, una specie di delegati dell’imperatore e, difatti, il re difese i confini dell’impero con nuove fortificazioni.
Ostaggio in gioventù alla corte di Costantinopoli, il futuro re aveva appreso le tecniche di governo dell’impero e avrebbe avuto accanto un ministro eloquente e capace come Cassiodoro, ma dovette governare un Paese nettamente diviso tra due etnie che radicavano la propria identità nell’esercito, che era precluso ai romani, e nella differenza di religione, una discriminante che contava molto nell’epoca della statalizzazione della fede, percorsa da profonde istanze teologiche pronte a divenire politiche o identitarie. Malgrado i notevoli sforzi di acculturazione, a Teoderico non riuscì ciò che invece ottenne il suo rivale franco Clodoveo, il quale, avendo accettato il credo cattolico, seppe fondere in un’unica società «romani» e franchi.
«Tante virtù — fu il giudizio di Machiavelli — furono bruttate nell’ultimo della sua vita». La biografia di Teoderico si divide infatti nettamente in un prima e un dopo. L’equilibrio s’incrinò intorno al 520 e da allora il re reagì al destino con atti di spietata crudeltà. Da Costantinopoli soffiava un vento avverso. Prima l’imperatore Giustino si mise a perseguitare gli ariani, poi il successore Giustiniano dette inizio alla campagna che doveva ricondurre alla dipendenza diretta dal governo centrale le province già affidate a vandali e a goti. Il progetto di Teoderico era fallito, il regno precipitava. Dopo la sua morte, nel 526, la figlia Amalasunta, che era ormai perfettamente ellenizzata, fu strangolata nell’isola di Bolsena dal marito, il ricchissimo goto Teodato. Seguirono le guerre gotiche, durate sul suolo italiano fino alla totale riconquista bizantina.
La demolizione di quanto aveva lasciato il suo regno durò a lungo. Prima i longobardi portarono a Brescia quanto poterono, compreso il Vangelo scritto in goto in lettere d’argento su fogli tinti di porpora, poi Carlo Magno ottenne il permesso papale per portare ad Aquisgrana marmi e bronzi del palazzo reale. La cattedrale ariana di Ravenna fu convertita in Sant’Apollinare Nuovo e nel grande mosaico, che rappresentava il re nel palazzo reale tra i suoi ministri, furono cancellate le figure. Poi venne un vero colpo di grazia al suo buon nome. Alla fine del VI secolo, Papa Gregorio Magno (sul soglio dal 590) raccolse il racconto d’una visione occorsa a un eremita. Nell’istante in cui il re moriva, questi gli era apparso, scalzo e stracciato, mentre il senatore Simmaco e il Papa Giovanni I, entrambi sue vittime, lo gettavano in un vulcano.
La storia è inserita nella raccolta dei Dialoghi, uno dei libri più consultati nel Medioevo come modello di scrittura. Così si diffuse presto in un raggio molto ampio e Teoderico fu universalmente condannato come nemico della Chiesa. Le Cronache dalla Novalesa a Verona — la città dove il re aveva avuto una seconda residenza — e persino il Liber Pontificalis di Ravenna confermarono l’immagine del tutto negativa del re.
A scrittori franchi, come Fredegario, o longobardi, come Paolo Diacono, il re appariva però diversamente. Il primo conosceva episodi della giovinezza trascorsa nei Balcani, diffusi, probabilmente, dai bardi goti della diaspora, mentre il secondo era ammirato dello splendore dei palazzi teodoriciani di Monza e Pavia. Verona attribuì al re goto la costruzione dell’arena, o di un misterioso palazzo capace di contenere migliaia di persone. Nel Duecento, tradizioni longobarde e gote vennero a mescolarsi. Per il cronista Giovanni Codagnello, Teoderico e Alboino, nonostante il secolo che li separa, divennero rivali.
Nel mondo germanico la figura di Teoderico si complicò ulteriormente. Egli divenne il nemico di Ermrich (re di Roma), si sarebbe incautamente fidato del castellano di Raben (Ravenna) e sarebbe stato protetto da Etzel (Attila) etc. etc. Di ballata in ballata i trovatori assicuravano a Teoderico una sopravvivenza complicatissima. Ormai il re era pronto per entrare nella saga del Nibelungenlied, incontrare Sigfrido, Crimilde e Brunilde, in un intreccio di amori, duelli, tradimenti. Era ora l’eroe di Verona (Dietrich von Bern) ed entrava nelle leggende scandinave come Diderik.
In Italia Teoderico doveva tornare nella sua Verona, dopo essere stato, in annali scritti a Colonia, fantasma errabondo sulle rive della Mosella. Il celebre bassorilievo sulla facciata di San Zeno raccoglie un racconto che doveva circolare a Verona. Diceva che il diavolo in persona aveva regalato al re un destriero stregato, che lo avrebbe precipitato nell’inferno. Era il Teoderico di una famosa poesia di Carducci.
Carlo Bertelli