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 2013  settembre 15 Domenica calendario

AMMALARSI DI AUSTERITA’, DAVVERO

Davvero l’austerità uccide? Se ne discute tanto di questi tempi; e il caso delle tre persone che si sono tolte la vita a Civitanova Marche ai primi di aprile è stato una delle occasioni per riparlarne. Che i periodi di crisi economica potessero avere risvolti anche gravi sulla salute è cominciato a emergere in modo abbastanza chiaro fin dall’Ottocento. È stato allora che si è cominciato a osservare un fenomeno preoccupante: chi non aveva un lavoro aveva due volte più probabilità di suicidarsi di chi aveva continuato a lavorare, nonostante le difficoltà. Poi, con i dati della grande recessione negli Stati Uniti, delle crisi finanziarie dell’Asia e della depressione della Russia post-sovietica, le evidenze sono diventate ancora più solide.
E oggi? Secondo un articolo recente del «New York Times» si è verificata negli Stati Uniti a partire dagli anni 2000 una tendenza graduale, ma costante, all’aumento dei suicidi, che ha raggiunto un picco nel 2007-2009 (crisi dei mutui subprime); in quel periodo si sono registrati 4.500 suicidi in più di quello che ci si sarebbe aspettati in base ai dati precedenti e gli Stati degli Usa con il maggior numero di suicidi erano proprio quelli dove c’era meno lavoro.

Oggi negli Stati Uniti è maggiore il numero dei cittadini che si tolgono la vita di quelli che muoiono per incidenti stradali. Ma esiste il rovescio della medaglia, per così dire: aumentare le tasse su alcol e fumo — come è stato fatto in Finlandia e Gran Bretagna recentemente — può persino ridurre le complicazioni e le morti causate da alcune malattie. Fra l’altro, durante i periodi di crisi economica la gente mangia meno e ha più tempo per l’esercizio fisico, tutte cose utili per stare meglio; e si sposta di meno in macchina, il che riduce le morti per incidenti stradali. Così, quando si analizzano i riflessi delle misure di austerità sulla salute, può accadere che gli effetti negativi che si vedono nei gruppi più vulnerabili siano mascherati da miglioramenti in altri strati della popolazione (il lavoro fu pubblicato dalla London School of Economics and Political Science nel 2009).
Non c’è dubbio, però, che i tagli indiscriminati producano malattie e morti, destabilizzino i sistemi sanitari e, a lungo andare, condizionino le possibilità di ripresa. Ogni giorno in qualche parte del mondo si discute di finanza, economia, debiti sovrani, Borsa e spread, a volte con notevole grado di sofisticazione. Chi mai discute dei costi che queste misure d’austerità comportano per la vita degli uomini? E quale politico ne tiene conto? Eppure occasioni per informarsi ce ne sono. Le statistiche che legano tagli alle spese per sanità e servizi sociali a malattie e morti, per esempio, si trovano nel numero di «Lancet» dell’aprile di quest’anno, interamente dedicato alla salute dell’Europa.

L’esempio più convincente è quello della Grecia, dove il budget per la salute, su indicazione della cosiddetta troika europea, è stato ridotto dal 2008 a oggi del 40%. Trentacinquemila fra medici e infermieri hanno perso il lavoro, la mortalità infantile è aumentata del 40%. C’era un programma per aiutare chi abusa di droghe perché potesse almeno usare siringhe pulite: è stato cancellato e il numero dei ragazzi che hanno contratto l’infezione da Hiv è raddoppiato. Nemmeno per gli spray per proteggersi dalla malaria ci sono più soldi e così aumentano i casi di chi contrae la malattia, circostanza che non si manifestava dal 1970. Sono pochi coloro che riescono a farsi ricoverare in ospedale per via delle liste d’attesa e, quando anche ci si riesce, è difficile curarsi perché non ci sono più farmaci (la gente ormai li compra al mercato nero, intanto nei nostri ospedali aumentano i furti di medicine costose destinate alla Grecia).
Una politica di ripresa deve essere orientata «al circolo lavoro-istruzione-salute che sono indissolubilmente collegati», scrive Guido Rossi sul «Sole 24 Ore». Parole? Niente affatto. Il «New York Times» porta l’esempio dell’Islanda: stessi problemi della Grecia, con la più grande crisi bancaria della storia in rapporto alle dimensioni della sua economia, e disoccupazione aumentata di nove volte. Problemi affrontati però in modo graduale e senza compromettere il sistema sanitario; e soprattutto senza nessuna restrizione all’importazione di farmaci, anche quando i costi aumentavano.
Così, mentre l’economia dell’Islanda è in ripresa, la Grecia è in bancarotta e non si vede la fine. C’è una classifica dei Paesi dove la gente è più felice, il World Happiness Report, e se l’anno scorso l’Islanda era ai primi posti, quest’anno è al nono, davanti all’Australia per esempio (l’Italia è molto indietro: quarantacinquesimo). Chi è critico dirà che Islanda e Grecia non si possono comparare, ma non è così; e poi ce ne sono molte altre di situazioni comparabili. Quelle delle ex repubbliche sovietiche, per esempio, dopo il 1991, dove chi ha adottato politiche drastiche di austerità ha avuto molte più morti per alcol, malattie di cuore e suicidi di chi ha praticato politiche di risanamento più graduale, senza compromettere i servizi sanitari. Lo stesso nel 1997 in Asia. Chi ha seguito le indicazioni di austerità del Fondo monetario internazionale — Thailandia e Indonesia — ha avuto molti più morti per infezione di quei Paesi dove, come in Malaysia, hanno fatto di testa loro, senza tagliare sui servizi alla salute.

L’indagine del «New York Times» dimostra che investire un dollaro in salute ne porta tre in crescita economica. Non si salvano solo vite, evitando i tagli a sanità e servizi sociali: si creano le condizioni per crescere.
Se l’austerità e i suoi effetti sulla salute fossero stati studiati come facciamo noi nei clinical trials per valutare l’effetto di un farmaco, lo studio l’avremmo già chiuso tanti anni fa perché nel braccio «austerità» si muore di più. La ricetta del «New York Times» è: 1) che ciascun Paese abbia un’agenzia indipendente che sappia valutare gli effetti sulla salute della politica monetaria; 2) che si tratti la disoccupazione (che porta a depressione, alcolismo e voglia di suicidarsi) come si trattano le epidemie (l’hanno fatto in Finlandia e Svezia con un programma per aiutare chi è senza lavoro a trovarlo in fretta e ci sono stati effetti positivi anche sulla crescita); 3) in tempi di crisi bisogna espandere, non ridurre i programmi di salute.
In medicina, come sappiamo tutti molto bene, prevenire è sempre meglio che curare, anche per quanto riguarda i costi, e se si arriva tardi certe volte le cure non funzionano più (basta pensare all’Aids e alla tubercolosi). Tagliare su salute e servizi sociali senza nemmeno porsi il problema di che cosa serva e cosa no, come abbiamo fatto noi con la spending review, potrebbe essere fatale.
Giuseppe Remuzzi