Danilo Taino, Corriere della Sera 15/09/2013, 15 settembre 2013
LA LUNGA MARCIA VERSO IL CONSUMISMO
Non rilassatevi. Il mondo è ancora sul punto di cambiare. Nel Trade and Development Report 2013 pubblicato giovedì scorso dall’Unctad — l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa appunto di commercio e sviluppo — ci sono alcune statistiche sorprendenti che indicano quanto le economie del pianeta siano cambiate negli scorsi decenni e quanto siano destinate a cambiare nei prossimi. Una tabella del rapporto Unctad dà l’idea della forza dirompente della crescita cinese, un fenomeno che ha sconvolto equilibri antichi. In soli dieci anni, tra il 2002 e il 2012, il consumo di alluminio della Cina è passato dal 16,2% di quello mondiale al 44,8%. L’utilizzo di rame dal 18,2 al 43,3%. Quello del nichel dal 7,1 al 47,7%. Quello dei semi di soia dal 18,5 al 29,5%. Nel 2002, il Paese bruciava il 6,8% del petrolio usato nel mondo e nel 2012 l’11,7%. L’unico prodotto di base la cui quota è calata è il riso, cibo dei poveri: dal 33,4 al 30,8% dei consumi mondiali. Di conseguenza, le economie sviluppate hanno ridotto la loro quota di utilizzo dal 60,2 al 32,3% nel caso dell’alluminio, dal 52,7 al 29,8% nel rame, dal 64,7 al 34,1% nel nichel e via dicendo, fino a una quota di petrolio pari al 44,7% del totale mondiale, in calo rispetto al 55,2 del 2002. Lo spostamento della manifattura industriale verso la Cina, iniziato timidamente negli anni Ottanta, nell’ultimo decennio è insomma diventato portentoso e ha trasformato il mondo. Il fatto è che ora ha toccato il limite oltre il quale non può andare e la dirigenza di Pechino ha deciso di cambiare modello di sviluppo: meno esportazioni, più consumi interni. È assolutamente necessario. Per molti motivi ma anche per uno fotografato sempre dal rapporto dell’Unctad. Negli ultimi tre decenni, mentre la Cina diventava la fabbrica del mondo a basso costo, il peso del monte salari mondiale è diminuito drasticamente. Nel 1980, i redditi da lavoro, quelli percepiti dalle famiglie per avere prodotto beni e servizi, erano superiori al 60% del Prodotto lordo mondiale: nel 2011 erano scesi al 54%, il resto essendo profitti e rendite (pensioni comprese). Nelle previsioni dell’Unctad, se non interverranno cambiamenti di modello, la quota globale del lavoro rispetto al Pil continuerà a diminuire, attorno al 52% nel 2030. Si tratta di un calo che per alcuni versi ha ridotto i costi di produzione, ma per un altro ha frenato la crescita della capacità di consumo e dunque della domanda. Ciò significa che i Paesi emergenti, Cina e India in testa, dovranno accelerare le politiche che favoriscono l’espansione della loro classe media che consuma, anche attraverso salari più alti — tendenza già in corso in Cina. Oggi, circa il 60% della popolazione degli Stati Uniti è classe media, il resto è sopra la fascia di reddito che qualifica un americano come middle class. Ma solo un 30% di cinesi, l’8% degli indiani e il 5% dei nigeriani possono essere considerati classe media secondo gli standard di ognuno dei Paesi. Per loro, d’ora in poi, conteranno più i frigoriferi dell’alluminio.
Danilo Taino