Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 15 Domenica calendario

UN UOMO PRIGIONIERO A LETTO. LE ULTIME RIGHE DI BEVILACQUA

Stanza 203, secondo piano, palazzina A di Villa Mafalda. Alle cinque del pomeriggio di domenica 8 settembre, il grande Samsung a muro è spento; il monitor, che dal comodino trasmette i valori vitali del paziente al computer centrale di Terapia intensiva, bisbiglia appena. Tra le pareti chiare della lussuosa clinica romana, la luce arriva tenue, smorzata dai pini davanti alla finestra. Alberto Bevilacqua respira a fatica, aggrappato alla sua indomabile voglia di vita: ma sente la fine. Michela, la compagna cui alcuni negano anche questo status di puro amore, dalla poltroncina di pelle bianca accanto al letto gli legge qualche pagina di Roma Califfa, spremuta dell’anima carnale d’una città che Alberto ha assimilato, arca di luoghi e personaggi attorno al Colosseo. Lui sgrana gli occhi. A volte lascia sgusciare qualche lacrima tra i ricordi. Più spesso le stringe la mano. «Non piangere, tesoro mio, ce la faremo, ne usciremo», gli giura lei.
Non andrà così. Qualche minuto dopo le dieci di lunedì mattina, 9 settembre, l’inventore della Califfa, il magnifico provinciale che ha affrescato l’intimità italiana con gli accenti colorati della sua Parma, ha l’ultima crisi, il cuore si ferma. Mentre Bevilacqua muore, c’è in stanza soltanto Ilaria, la piccola infermiera dai capelli rossi che sapeva farlo sorridere a colazione, riusciva a imboccarlo persino durante le crisi peggiori. Ilaria singhiozza. In corridoio Caterina, l’altra infermiera, prega, inginocchiata. Lucia Concordia, l’anestesista, prova a rianimarlo furiosamente, una, dieci, venti volte. «L’abbiamo perso!». Sono queste le ultime ore di quegli infiniti undici mesi che, dall’11 ottobre dell’anno scorso, hanno inchiodato Bevilacqua a Villa Mafalda, imprigionato dalla malattia e, forse, poi, anche dai malanimi e dagli equivoci che hanno trasformato l’affetto di chi gli voleva bene in fiele e battaglie legali.
Lei, Michela Macaluso, che col cognome «Miti» girava da ragazza filmetti sconciamente sciocchi e per questo ancora si tira dietro una specie di assurdo stigma, lei che Alberto aveva fatto rinascere e che per lui s’era inventata poetessa, arriva in clinica subito dopo. «L’ho baciato», dice quando la incontriamo assieme ai suoi legali, Egidio e Rosamaria Zaccaria: «E sembrava vivo... era ancora lì, io lo so, la sua energia c’era. Gli chiudevano gli occhi e lui li riapriva. Ho messo la mia mano tra le sue, e la sua mano è diventata più pesante, come per non lasciarmi. "Perdonami se non potrò più toccarti, amore mio", gli ho detto. Mi sentiva». Gli ha preparato la giacca blu e la vecchia camicia dono di Paco Rabanne che lui adorava, un grande cuore di rose rosse per il funerale. Ha un rimpianto tra i tanti: «Dovevano lasciarmi dormire con lui l’ultima notte, sapevano che stava finendo». Altro fiele, sicuramente altra materia per carte bollate.
Il curioso delle donne, che tante donne hanno amato, aveva premonizioni potenti: il suo ultimo lavoro, dice Michela, una sceneggiatura «che poteva diventare romanzo», si sarebbe dovuto chiamare Le Tigri bianche, «e parlava di un personaggio fortissimo che a un certo punto si trova in un letto e non riesce a fare più niente». Rileggeva qualche pagina, dicono in clinica, «ma si stancava presto». L’ultimo scorcio di Bevilacqua dev’essere stato gonfio di presagi, e non solo — forse — per l’amicizia con Gustavo Adolfo Rol, il sensitivo che pure ne ha orientato le scelte nella seconda parte della vita. Attorno al letto della stanza 203 s’è sviluppata, forse per troppo amore, una contesa che ora, anche per convenienze legali (c’è un’inchiesta per omicidio colposo), ci lascia immagini pirandellianamente sovrapposte dello stesso uomo.
A stento parlava, serrandosi la cannula in gola: ormai da mesi gli avevano dovuto forare la trachea per farlo respirare. Ma chi l’ha curato ne ricorda chiacchierate intere, il «tifo per Bersani alle elezioni», i rimbrotti sul calcio con Sergio l’infermiere, «non ne capisci niente», piccoli lampi di malizia in risposta a chi lo interrogava sul flirt con Romy Schneider al tempo della Califfa. «In undici mesi si diventa di famiglia», giura Paolo Barillari, il presidente di Villa Mafalda, affabile e deciso a risanare l’immagine della clinica ammaccata dalle accuse di Michela finite in Procura. «Se gli chiedevo "di che partito sei?", diceva "buh?". Però stimava Assunta Almirante», sostiene lei. Il 27 giugno, per i suoi settantanove anni gli porta una rosa finta (niente fiori in Terapia intensiva) e gli improvvisa una festa, passandogli gli amici al cellulare: «Lui mi ha regalato il suo sorriso più bello». Ma in clinica rammentano la festa organizzata dalle infermiere con tanto di ciambellone. E ci aggiungono visite di ammiratrici, che Alberto sempre ha avuto, ricordando perfino una tal Rossella venuta da Lecce solo per cantargli le romanze di Verdi che lui amava di più. E forse sono vere tutte queste immagini, forse non lo è completamente nessuna. Quando a dicembre la sorella minore, Anna, scende da Parma, lui le chiede «come hai trovato mamma?». La madre è morta dieci anni prima, ma lei, non volendo rattristarlo, lo inganna senza mentirgli: «Non preoccuparti. Come l’hai lasciata, è». Adesso Anna — dopo averla fronteggiata per più d’un pomeriggio sull’altra poltroncina bianca della stanza 203 — dice che Michela era «una delle tante»: e questa forse è una crudeltà gratuita o una verità inutilmente crudele, chissà, certo altro fiele al posto degli abbracci che aiuterebbe scambiarsi in queste occasioni. Gli ultimi lampi di un’esistenza formidabile non meritano d’essere narrati in coriandoli amari. Quando Annibale Doberdò s’innamorò scandalosamente della Califfa, e della sua camminata che «accarezzava le voglie», sapeva di andare incontro a una montagna di guai e scomuniche. Che fosse premonizione o solo talento narrativo, ora sembra una linea di confine tra le tante possibili verità su Alberto Bevilacqua.
Goffredo Buccini