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 2013  settembre 15 Domenica calendario

«NOI, UOMINI-IMPRONTA DIGITALE» —

Lui dice di chiamarsi Tawfik Assad, ma appena lo vedi pensi a Fabrizio Corona per via dei tatuaggi, i muscoli tesi, i capelli curati, orecchini e braccialetti, gli occhiali a specchio inforcati a dispetto delle nuvole. Ha 25 anni, viene dal Marocco. È un ex detenuto che ha scontato la pena «per rapina e lesioni», assicura con l’aria di voler sminuire il reato, ma forse era qualcosa di più pesante. Dopo la scarcerazione ha attraversato un paio di Centri di identificazione ed espulsione, poi è tornato libero e ha preso la strada dell’Olanda, ma in Francia l’hanno fermato e rispedito in Italia.
Da due mesi Tawfik è rinchiuso nel Cie di Gradisca, dove in agosto è stato un protagonista della rivolta che ha portato all’occupazione dei tetti, ingenti danneggiamenti, intervento massiccio delle forze dell’ordine con manganelli e lacrimogeni, dodici evasioni (sebbene tecnicamente non possano definirsi tali, giacché gli «ospiti» non sono detenuti) e un aspirante fuggiasco in coma dopo un volo da qualche metro d’altezza. È stata quella faccia da Corona a condurre la trattativa con la deputata di Sel Serena Pellegrino, per far cessare la protesta. I ribelli hanno ottenuto la riconsegna dei telefonini sottratti all’ingresso, nonostante non fossero vietati da alcuna norma, e la promessa di riapertura della mensa e del campo di calcio. Ma adesso Tawfik chiede altro: «Io voglio uscire e tornare in Marocco dalla mia famiglia», dice alla delegazione della commissione Diritti umani del Senato, guidata da Luigi Manconi, impegnata a verificare le condizioni di vita nei sette Cie attualmente in funzione, dove complessivamente sono custodite 550 persone. Il problema è che il Marocco sembra non volerne sapere di riprendersi questo ex galeotto, né risponde alle richieste delle autorità italiane. «Se mi fanno uscire vado io a parlare col console», insiste Tawfik, e si può immaginare che il console non sia ansioso di incontrarlo. Così il simil-Corona resta uno degli uomini-impronta chiusi qui dentro, riconosciuti e riconoscibili solo dalle impronte digitali, al pari degli altri 43 che vivono da prigionieri senza esserlo. Si tratta di condannati trasferiti direttamente dalla cella a pena esaurita, in attesa dell’identificazione e del rimpatrio (volontario o forzoso che sia) dovuto alla pericolosità sociale o altri motivi; oppure clandestini arrivati dalla strada, dopo un controllo di polizia che ha svelato impronte e precedenti penali, di solito droga o reati contro il patrimonio: l’unico dato certo, finché non si accertano nome e provenienza.
«Io sono stato fermato a Brescia senza documenti — racconta Jallo, dalla pelle color nero Senegal — dopo sei anni che stavo in Italia». Dice di avere una sorella e un fratello che vivono regolarmente a Parma e Brescia, ma chissà. E chissà se è vera la storia riferita da Morad Samud, tunisino che s’è visto negare la richiesta di asilo. Sostiene di essere approdato a Pantelleria, unico superstite di un equipaggio di quattro: «Gli altri tre sono annegati, nel mio Paese mi accusano di essere lo scafista di quel viaggio e dunque non posso rientrare».
Abdel Aziz Nazik è un sedicente algerino di quarant’anni che vive in Italia da diciotto, clandestino. Dal Cie di Torino è stato trasferito qui, oltre un anno fa. Ufficialmente è un senza patria: «L’Algeria ha risposto che non gli risulto, e così Marocco e Tunisia». Conseguenza, non si sa dove rispedirlo. Tra qualche mese — scaduto l’anno e mezzo che la legge prevede come limite massimo al trattenimento per gli uomini-impronta — tornerà libero con l’ordine di lasciare il Paese. Che verosimilmente non rispetterà, in attesa del fermo successivo. Un presunto connazionale di Nazik aspetta da diciassette mesi, per lui le porte si apriranno prima. A meno che non riaccada quel che è successo quando il Marocco ha accettato di riprendersi un «trattenuto» il giorno prima che scoccasse il diciottesimo mese.
La scarsa o nulla collaborazione delle autorità consolari — soprattutto dei Paesi del Maghreb, da cui proviene la maggioranza dei trattenuti — è uno dei principali ostacoli segnalati all’unisono da questore, prefetto e responsabili del Cie. Un altro è la mancata imposizione dell’identificazione delle persone in carcere. Nelle nostre prigioni gli uomini-impronta trascorrono la detenzione con nome e nazionalità virtuali, e solo quando escono comincia la trafila burocratica dell’identificazione. Di qui i trattenimenti che, secondo le statistiche di Gradisca, nel 60 per cento dei casi durano meno di sei mesi. Gli altri, quasi tutti di provenienza maghrebina, restano in media fino a un anno, qualcuno di più. Vivono in quella che, a vederla, è una galera a tutti gli effetti: camerate da otto letti e gabinetti in condizioni igieniche appena accettabili (ma dipende dagli standard di ognuno), protette da cancelli che adesso sono chiusi solo di notte mentre fino a poco tempo fa restavano serrati anche di giorno, con turni di apertura di 45 minuti ogni dodici ore, prestabiliti per ogni stanza. Ora invece, da mattina a sera, hanno libera circolazione nelle cosiddette «vasche», cortili recintati da sbarre e chiusi sopra le teste da reti metalliche, come per i mafiosi rinchiusi al «41 bis». Gabbie.
Tutti sostengono che nelle carceri vere si sta meglio, «lì il cibo è buono, qui fa schifo». Il tunisino Aymen Zini rimpiange la playstation del penitenziario svizzero dove era detenuto prima di essere mandato in Italia, perché qui gli avevano preso le prime impronte digitali. Mohamed Zeroki, algerino quasi cinquantenne, ha portato il suo materasso fuori dalla camera coi graffiti inneggianti Allah e contro gli «sbirri», dorme lì per via dell’asma. È stato condannato per «tentato furto», afferma esibendo il provvedimento dei giudici di Bologna che hanno annullato l’ordine di espulsione perché nel suo Paese «è praticata la tortura, come indicato da affidabili organizzazioni internazionali». Scontata la pena è approdato qui: «Dicono che per restare devo trovare un lavoro, ma se mi tengono qui come lo cerco?».
Siccome al momento la mensa è inagibile, come il campo sportivo, i pasti vengono distribuiti nelle camerate, dove vecchi televisori trasmettono immagini e parole inutili. Non c’è niente da fare, si aspetta solo che passi il tempo, in attesa di nulla. Un limbo blindato. In infermeria la dottoressa di turno spiega che quasi tutti gli «ospiti» chiedono psicofarmaci pesanti, che lei cerca di somministrare con parsimonia, e ogni tanto le portano qualcuno che s’è tagliato o ha ingoiato chissà che. «Atti di autolesionismo tipici dei luoghi di trattenimento coatto — dice il senatore Manconi, da sempre attento ai diritti dei reclusi —. In queste condizioni il Cie di Gradisca va chiuso». Il 20 agosto la deputata Pellegrino ha presentato un’interpellanza per chiedere ai ministri dell’Interno e dell’Integrazione «se non si intenda provvedere a una revisione della legge sull’immigrazione», nonché «verificare con regolarità che nel Cie di Gradisca vengano rispettati i livelli minimi di dignità umana e di rispetto della persona imposti dalla legge».
Giovanni Bianconi