Tommaso Labate, Corriere della Sera 15/09/2013, 15 settembre 2013
L’IMPARI SFIDA CON I FRANCHI TIRATORI TRA VOCI, SPIATE E FOTO COL TELEFONINO —
«Questo dibattito sul voto segreto è i-ne-si-sten-te», urla al telefono Maurizio Gasparri. Non esiste il tema, insomma, per il vicepresidente del Senato. A meno che «Berlusconi stesso non dica che vuole il voto palese sulla sua decadenza», i venti senatori necessari usciranno allo scoperto con la richiesta di scrutinio segreto. E quindi meglio prepararsi a quello che, per dirla con il senatore socialista Enrico Buemi, «sarà un momento storico». Un momento in cui, aggiunge, «dentro l’emiciclo di Palazzo Madama si consumeranno i fatti e i misfatti della Seconda Repubblica».
Proprio come nella massima che il poeta americano Thomas Stearns Eliot aveva racchiuso in uno dei suoi versi più celebri. «Nel mio principio è la mia fine/nella mia fine è il mio principio». Che salvi Berlusconi o che lo condanni alla decadenza, il voto segreto può spegnere per sempre le luci di quella Seconda Repubblica che aveva generato il 29 aprile 1993. «Presenti 565, votanti 564, astenuti 1, maggioranza 283, favorevoli 273, contrari 291», disse l’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano leggendo l’esito dello scrutinio — segreto, ovviamente — con cui l’Aula di Montecitorio aveva appena respinto l’autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Quattro ministri del neonato governo Ciampi — Luigi Berlinguer, Augusto Barbera, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli — si dimisero subito. Un altro, Paolo Savona, li seguì a ruota. La moneta italiana iniziò a crollare sui mercati proprio mentre il leader socialista, l’indomani, finì vittima del noto lancio di monetine davanti all’hotel Raphael. Il tutto mentre i sospetti sui misteriosi «franchi tiratori» si addensarono verso il blocco più ostile a Craxi. A cominciare dalla Lega e dal Movimento sociale italiano. «Con Berlusconi succederà proprio come con Craxi. Se c’è qualcuno che lo salverà nel voto segreto», sussurrava giorni fa il senatore del Pd Ugo Sposetti, «quelli saranno i grillini». Ed è uno schema che evidentemente non convince troppo chi, come la sua collega Laura Puppato, qualche settimana fa ha scandito la marcia d’avvicinamento dei Democratici verso il voto su Berlusconi con parole segnate dal demone del Sospetto: «Da quando in Aula è successa quella storia dei 101» — e il rimando è al fuoco amico contro la candidatura di Prodi al Colle — «mi sento come circondata da incappucciati». Incappucciati che neanche i telefonini riuscirono a smascherare. Visto che, di fronte ad alcune foto di schede con la scritta «Prodi», la prodiana Sandra Zampa insinuò che lo scatto era uno solo, fatto circolare dai traditori a mo’ di prova a discarico.
Spiare il voto di un vicino di banco, giura l’ex senatore del Pd Stefano Ceccanti, «è impossibile. Si vota infilando la mano in una piccola buca». Una buca in cui ci sono tre tasti. A sinistra c’è «astenuto», al centro «favorevole», a destra «contrario». Il polso non tradirà mai quello che il dito farà scegliendo uno dei tre tasti. Fotografarsi la mano con il telefonino, zoomando verso la buca?. «Oddio, aspetti. Forse... Ma no, no, non si vedrebbe comunque», dice il socialista Buemi. «Però», è qui torna a parlare Gasparri, «i grillini potrebbero inventarsi qualche microchip... Non dimentichiamoci che oggi ci sono Facebook e Twitter». C’erano anche quando nel giugno 2012, Palazzo Madama votò sull’arresto di Luigi Lusi. «Il voto segreto mi salverà», disse il tesoriere della Margherita alla vigilia. Qualche ora dopo sarebbe stato in galera, condannato dai 155 sì compatti del suo partito. Decisamente più cauto era stato il suo collega di sventura Sergio De Gregorio del Pdl, oggi principale accusatore di Berlusconi nell’inchiesta sulla compravendita di parlamentari, che allora fu salvato dai 169 voti contrari alle manette.
Diversa la storia alla Camera. Dove antiche malelingue tramandano quell’ordine di scuderia impartito dal berlusconiano Antonio Leone nell’ottobre del 2005, all’epoca del voto sul Porcellum. «Pensate al dito nel quale avete messo l’anello il giorno in cui vi siete sposati». Il dito dell’amore eterno — e cioè l’anulare — era quello che consentiva a tutti i colleghi di far capire come si votava. Se infilato in un certo modo poteva portare in quel caso solo all’opzione scelta dai berlusconiani. In quel giorno di otto anni fa, Berlusconi rimase alla Camera per dieci ore filate, a controllare che i suoi votassero con l’anulare. «È qui per impedirvi di votare liberamente», urlò l’allora capogruppo dei Ds Luciano Violante. Parole inutili visto che il Porcellum, grazie agli anulari berlusconiani, prese il largo. E visto che chi di dito ferisce di dito finisce per perire, ecco che l’anno scorso, per rendere palese il voto sull’arresto del berlusconiano Alfonso Papa, i deputati del Pd escogitarono il trucchetto di votare con l’indice della mano sinistra. Che può portare solo al tasto «sì». E dire che, anni prima, il leghista Calderoli aveva provato a seminare zizzania verso i piani alti: «Il voto segreto si fa con le macchine. E dietro le macchine ci sono gli uomini dei servizi informatici delle Camere...». E prima che esistesse il voto elettronico? «Rifiuto di consacrare questo strumento. Da un lato tende a incoraggiare i deputati meno vigorosi nell’affermazione delle loro idee...», disse nella seduta dell’Assemblea costituente del 14 ottobre 1947 il giovane democristiano Aldo Moro, parlando contro il «voto segreto». Una tesi che probabilmente, nel 2013, non convince del tutto il senatore Domenico Scilipoti, del Pdl. «Palese o segreto, è la stessa cosa. Basta avere il coraggio delle proprie idee. Lei mi vuole chiedere se su Berlusconi avranno la meglio l’odio e il pregiudizio oppure la lealtà di chi s’è letto le carte del processo e della giunta?». Pausa. Risposta. «Ecco, questo io proprio non lo so».
Tommaso Labate