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 2013  settembre 15 Domenica calendario

ZAVOLI, IL GIRO DEL MONDO IN 90 ANNI

Sabato prossimo, il 21 settembre, com­pirà 90 anni. Parliamo di Sergio Za­voli, maestro del giornalismo italiano. Con lui ripercorriamo il lungo e affa­scinante viaggio della sua vita.
Partiamo da Rimini, la città dove è cre­sciuto. Quando ci torna, cosa rivede la sua memoria?
«Le bombe. Il primo degli oltre trecento bombardamenti, che ridussero la città a una specie di necropoli appena dissepol­ta, aveva colpito le nostre strade; e mio pa­dre, come finì l’allarme, con un gruppo di volontari cominciò a scavare. Sotto le tra­vi, come nei terremoti, cercavano i so­pravvissuti e fu allora che vidi estrarre u­na donna con il ferro da stiro ancora in ma­no e in bocca un tappo di calce. In quel momento le sirene tornarono a suonare e tutti scapparono. Mio padre e un ragazzo, si chiamava Virgilio Bertozzi, si nascosero tra le macerie con quella donna ancora tra le braccia... Dopo una ventina d’anni da quei bombardamenti la nostra strada a Ri­mini era colma di pensioni, di insegne e di fiori. Il bianco dei calcinacci e il rosso del­le tegole, tornati due colori normali, sta­vano al posto loro ignari di quel lontano giorno».
Seguirono i giorni del rocambolesco rifu­gio a Perugia, nella casa di sua sorella. In attesa degli Alleati, per sottrarsi, in quan­to disertore, al ’bando Graziani’. Poi il debutto al Giornale dell’Umbria e l’in­contro con Aldo Capitini.
«Quando in città arrivarono gli Alleati, Ca­pitini fondò il COS, Centro di Orienta­mento Sociale, frequentato specialmente da studenti, intellettuali, operai, persone interessate o solo curiose. Fu il primo in­contro con la democrazia, stava nascendo un modo nuovo di pensare e di vivere. C’e­ra nell’aria un mondo portato dalla guer­ra, e la pace riempiva gli occhi e il cuore di commozione».
Con il cuore pieno di emozioni, il ragazzo che lei fu, iniziò la gavetta del grande gior­nalista che sarebbe diventato.
«Cominciai correggendo bozze in un gior­nale liberale, che aveva il capo redattore socialista. Veniva da Roma, si chiamava Sangiovanni. Alle due di notte, usciti dal­la tipografia per disintossicarci dal piom­bo e dall’antimonio, si andava in un bar che non chiudeva, ci aspettava con una punta di orgoglio perché anche così, dice­va un cameriere, ’si aiutava la democra­zia’. Poi verrà la professione vera e pro­pria, che mi darà più cose, temo, di quan­te potrò darne ai praticanti».
I primi riconoscimenti furono da giorna­lista sportivo: categoria che prima di Gian­ni Brera veniva relegata alla serie B.
«Gianni Brera è stato, nei molti Giri e Tour de France fatti insieme, un collega straor­dinario: maestro di vini e immaginazioni, formaggi e odori, ostriche e sigari. Ma c’e­ra anche Orio Vergani, nei nostri ozi sera­li, che dalla Francia faceva dettare i suoi pezzi, scritti per il Corriere della Sera, da un famoso fotografo, Walter Breviglieri: il so­lo che, misteriosamente, riusciva a deci­frare una scrittura minutissima, fatta di uncini e di riccioli, di contrazioni e svico­lamenti, su pagine riempite partendo da un’intera riga e, discendendo, si riduceva a una colonnina via via più smilza, che fi­niva con una sola parola. Non credo che di­fendessimo più un giornalismo di ’serie B’ e comunque eravamo un bel trio stram­palato: Brera sceglieva i vini, Orio i for­maggi, io il pesce. Meraviglie, e ogni tan­to, non sempre dissimulabili, piccole sbronze e qualche mal di pancia».
Quanto ha contato sul piano culturale u­na trasmissione sportiva come il suo Pro­cesso alla tappa?
«A volte la testimonianza migliore ce la danno i numeri. Quella fortunatissima tra­smissione contava, sommando i bar ita­liani, dai sette agli otto milioni di spetta­tori al giorno e aveva indotto gli industria­li più compiacenti, o forse più sportivi, a concedere ’la pausa Giro’, collocando i te­levisori in fabbrica per il tempo del Pro­cesso alle tappe più attese».
Oggi il ciclismo viene processato spesso per colpa del doping, il suo ’Processo’ co­me fu intentato?
«Nacque dall’idea di trasformare uno sport per corridori in bicicletta, nella narrazio­ne di una realtà vista dal di dentro, con le storie di misteriosi pedalatori votati a spri­gionare energia, come tante pulegge, per tener vivi i progetti e gli sforzi dei ’capita­ni’. E questo, ore su ore, sotto la pioggia, il solleone, la grandine, il vento. Ne uscì una storia a puntate, soprattutto del gregario, promosso da semplice portatore d’acqua a protagonista di un’epica sconosciuta, che cominciava e finiva sui muretti con le scrit­te di calce su cui, come a scuola o sotto le armi, veniva prima il cognome e poi il no­me: forza Bartali Gino, oppure ’eviva Cop­pi Fausto’, con quell’eviva forse dovuto al­l’emozione...».
Ci sono giornalisti che si sono ispirati al suo stile, al suo modo di concepire la pro­fessione al punto che oggi possiamo par­lare di una ’scuola Zavoli’?
«A forza di lavorare, in un mestiere pub­blico come il mio, e con strumenti come la radio e la Tv, se non sei un torsolo, sen­za fantasia, senza aggettivi, senza un cer­to orgoglio, non oso dire senz’anima, pri­ma o poi lasci in giro qualcosa. Il che, se per un verso può essere gratificante, per un altro ti carica di responsabilità. Non si esce mai completamente indenni da ciò che dici, e soprattutto da come lo dici, quando e perché...».
Nel suo lungo reportage professionale ed esistenziale, qual ’è stata la storia o il fatto, che ha seguito da vicino e che ha giudicato altrettanto atroce quanto la guerra?
«Il terrorismo raccontato nelle 17 puntate di La Notte della Repubblica. E con un di­verso cumulo di orrori, la carestia in India, con i bimbi sciancati dalla rottura dei fe­mori per trasformarli in strumenti di pietà, e le giovani prostitute nelle famose gabbie ai lati della strada per esibire quella rovi­na nel Paese più mite e allora tra i più in­felici del mondo. Ma anche le favelas bra­siliane, con le bambine già gravide che mo­strano la pancia agli stranieri e ai perver­titi. Sì, questi sono stati tra i reportage più inquietanti... Però Chernobyl è rimasta l’e­sperienza più dura. Fu il segno di una gra­ve sconfitta della nostra modernità, rap­presentò gli ammonimenti di una tecno­logia che tradiva, screditandola, la scien­za. Quella tragedia servì per testimoniare le insidie dei nostri orgogli e delle nostre imperfezioni».
Da bambino sognava a colori poi è di­ventato il consulente dei sogni del suo amico e concittadino Federico Fellini...
«Federico e io ci telefonavamo quasi ogni mattina per raccontarci i sogni. ’L’imma­ginazione, da svegli, è il modo più alto di pensare’, diceva. La supera solo il sogno dove, anche dormendo Fellini, con gli oc­chi, non sbagliava mai».
Padre Turoldo, l’Abbé Pierre, suor Maria Teresa di Gesù, il cardinal Tonini: sono questi gli incontri più importanti fatti con la ’spiritualità’? O c’è una figura che sor­monta tutte le altre e anche il suo ’crede­re di credere’?
«Mi passi l’azzardo: alle mie inquietudini interiori aggiungerei, incomparabilmen­te, quel ragazzo chiamato Nazareno che riempirà il mondo di tutto ciò che Dio gli aveva dato per essere a somiglianza no­stra».
L’intervista che rimpiange di non aver fat­to; e il personaggio che vorrebbe incon­trare ancora.
«La prima richiederebbe un elenco ster­minato, il secondo è mio padre...».
Politica e giornalismo, sono due universi che ha sperimentato a fondo. Pensa che la cattiva politica odierna dipenda anche da una scarsa qualità dell’informazione?
«Dopo 53 mila generazioni dal fatidico big­bang, alla vigilia del lancio dell’Apollo 5 von Braun mi disse: ’Stiamo andando sul­la Luna’, e lei mi parla di due universi... In realtà la nostra sorte ce la giochiamo in u­no soltanto, quello in cui ci è toccato di vi­vere. Non so bene perché, ma non credo sia il peggiore universo possibile».
Concludiamo da Il ragazzo che io fui da cui le cito: ’La vita è dove stai’. È stato que­sto il senso del suo viaggio sin qui?
«La storia siamo noi è un bellissimo, e as­soluto, progetto. Ma siamo nati per vivere dove la nostra storia, via via, ci mette. Que­sta è la storia personale, determinata da varie scelte, a cominciare dal lavoro. Quan­to all’altra, di tutti, dobbiamo partecipar­vi perché non vada solo verso il bene di u­na parte, o addirittura di uno per volta».