Maurizio Gallo, Il Tempo 15/9/2013 (Dagospia), 15 settembre 2013
Mettete da parte per un attimo il «fattore B». Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di un «errore» che può trascinarci in un’aula di tribunale e poi dietro le sbarre di una cella
Mettete da parte per un attimo il «fattore B». Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di un «errore» che può trascinarci in un’aula di tribunale e poi dietro le sbarre di una cella. Prima del processo e senza aver fatto quello di cui siamo accusati. Ecco i numeri della vergogna, rimasti segreti per vent’anni e di cui siamo entrati in possesso insieme con il sito www.errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sull’ingiusta detenzione. Dal 1989, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, a oggi, circa 25 mila italiani (e non) sono stati incarcerati ingiustamente. Per rimborsarli lo Stato ha pagato 550 milioni di euro. Se a questi aggiungiamo altri 30 per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni. Cento abbondanti in più di quanto stanziato giorni fa dal Governo con il «decreto del Fare» per rendere più sicuri i 43mila plessi scolastici italiani e costruirne di nuovi. Non solo. Bisogna aggiungere le persone alle quali la richiesta di riparazione è stata negata, a volte per un cavillo. Eurispes e Unione Camere Penali parlano di una media di 2500 domande all’anno di risarcimento per ingiusta detenzione e sottolineano che appena un terzo (800) sono state accolte. Quindi possiamo stimare che da 25.000 casi si arrivi a circa 50.000. Immaginate lo stadio Olimpico: gli innocenti finiti dietro le sbarre ne riempirebbero oltre la metà. Ma non è un fenomeno degli ultimi 22 anni. Accadeva anche prima e non c’era la legge sulla riparazione di ingiuste carcerazioni (galera preventiva) ed errori giudiziari (sentenza sbagliata). Per il Censis durante la storia repubblicana quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. E i giudici raramente hanno pagato. Dall’entrata in vigore della legge Vassalli (1988), che regolamenta la loro responsabilità civile, le cause contro le toghe sono state 406. Solo 4 concluse con una condanna, meno di una su 100. Le vittime sono sconosciuti e vip, uomini politici e tutori dell’ordine, medici e impiegati, liberi professionisti e, naturalmente, anche magistrati. Vi racconteremo le loro storie, le sofferenze patite, dalla perdita del lavoro a quella dell’immagine, nel caso di personaggi pubblici. Dopo, a poco servono le smentite e le rettifiche. E perfino i risarcimenti. Perché non è solo una questione di denaro. Quello che resta delle loro esistenze, famiglie, rapporti di amicizia e professionali sono macerie, rovine sulle quali è difficile, a volte impossibile, ricostruire. Vite bruciate. Per uno sbaglio. (1-Continua) 2. «IO, FIGLIA DI ENZO TORTORA, DENUNCIO: IERI COME OGGI, I CASI TORTORA NON HANNO VOCE» di Gaia Tortora su Il Tempo Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono ritrovata davanti al computer e a tanti ricordi e parole e immagini nella testa. Questa volta però, mentre da «Il Tempo» mi spiegavano come sarebbe uscita l’inchiesta del giornale, la mia mente è tornata a poche settimane fa. Ad un libro. Alla storia di un uomo. Lui si chiama Giuseppe Gulotta. Il suo libro Alkamar - la mia vita in carcere da innocente. È la storia di un uomo che per 36 anni è stato considerato un assassino. È stato costretto a firmare una confessione con le botte e le torture. Oggi ha 55 anni. Ha passato in cella gran parte della sua vita. È un uomo innocente finito in un meccanismo che può stritolare chiunque. Ho letto d’un fiato la sua storia, che pure conoscevo. Ma non così nei dettagli. Mi sembrava in alcune pagine di rivivere l’incubo. Quel senso di impotenza che ti soffoca. Anche in quel caso tutto è cambiato in una notte. Esattamente come per mio padre. E per noi. Dalle 4 del mattino del 17 giugno 1983 l’esistenza di mio padre viene stroncata. Giorgio Bocca lo ha definito «il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana». Dall’arresto di quella notte alla morte di nostro padre passarono 5 anni. In mezzo, una condanna a 10 anni di carcere, poi la piena assoluzione e infine il cancro ai polmoni che lo ha portato via. Potrei dire molte cose in queste righe che mi è stato chiesto di scrivere. Molte e forse troppe ne ho già dette. Allora, come spesso mi capita quando mi chiedono qualcosa su mio padre, chiudo gli occhi e cerco di riascoltare le sue raccomandazioni. «Date voce a chi voce non ha». Ecco oggi i casi Tortora ci sono ancora. Sono molti e non li conosciamo. Mio padre era un uomo famoso. E nel bene e nel male questo ha avuto un peso. I riflettori si sono inevitabilmente accesi. Cosi riprendo tra le mani il libro di Giuseppe Gulotta e quelle parole a pag 127: «Gli anni 80 sono anni caldi per chi amministra la giustizia. Un referendum promosso dai radicali chiede una legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Troppi errori, dicono i promotori citando il caso Tortora. Ma Giuseppe Gulotta non è Enzo Tortora, nessuno si occupa del suo caso, non c’è una campagna innocentista né un garantista, fra i tanti che si definiscono tali, che parli di lui». È terribilmente vero. Ieri come oggi. I casi Tortora non hanno voce. Ieri come oggi siamo ancora qui a dibattere di riforma della giustizia. A firmare di nuovo referendum per i quali gli italiani si erano già espressi e che poi come spesso accade i nostri politici hanno fatto diventare carta straccia. Mentre infuria la battaglia sulla magistratura i processi vanno avanti. Lentamente. Le persone aspettano. La sete di giustizia in questo Paese è diventata arsura. In molti risvolti delle nostre vite. Il problema non è la magistratura italiana, ma alcuni uomini che ne fanno parte. E che possono sbagliare come tutti. Ma che avendo per le mani la vita di un essere umano dovrebbero avere maggior scrupolo proprio come un chirurgo con il bisturi o un giornalista con la penna. Sulle responsabilità dei magistrati è stato vinto un referendum nel 1987. Non chiedo che vada limitata la loro libertà. Ma i magistrati che sbagliano almeno non dovrebbero essere promossi. Basterebbe un po’ di buonsenso e di coerenza. Invece, nella maggior parte dei casi, non ti chiedono neanche scusa.