VARIE 14/9/2013, 14 settembre 2013
APPUNTI PER GAZZETTA - IL CASO ILVA E LE AUTOCRITICHE DELLA BOCCASSINI
REPUBBLICA.IT - L’AUTOCRITICA DELLA BOCCASSINI
MILANO - Dibattito affollato per un libro contro-corrente. E con un’Ilda Boccassini che fa salutare con un applauso l’ex collega Gherardo Colombo, nascosto tra il pubblico, ma ripete, con qualche elaborazione in più quel concetto che, appena dopo la strage in cui morì Giovanni Falcone, li divise. E divise la magistratura: "Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent’anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un’autocritica o una riflessione". Perché, aveva detto poco prima, "si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro" per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica.
Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. "Io - racconta Boccassini, che dopo trent’anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevamo in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite"". E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev’essere l’approvazione".
E’ stato presentato ieri a Milano "L’onere della Toga", di Lionello Mancini (Bur, 11 euro). Un libro che racconta, con molte virgolette, ma anche con le riflessioni dell’autore, la vita di cinque pubblici ministeri normali, tenendo però sullo sfondo alcune domande sulla giustizia e sulle sue disfunzioni. E anche di questo, presentati da Ferruccio De Bortoli, hanno parlato i due magistrati. Silvio Berlusconi è stato citato en passant, ma dello "scontro tra mass media, magistratura e politica" s’è parlato. Anzi sarebbe stata questa "conflittualità talmente alta" a impedire la "riflessione" nella magistratura che il procuratore aggiunto antimafia di Milano definisce "un corpo sano" in un paese a basso tasso di legalità: "Sì, in Lombardia abbiamo molti incendi dolosi, e nessuna vittima fa denuncia, o dice di aver avuto minacce. Quando scopriamo imprenditori che hanno negato l’evidenza, chiediamo l’arresto per favoreggiamento aggravato, perché o si sta con lo Stato o no. E in più, il vittimismo di alcuni nasconde un do ut des, anche l’imprenditore lombardo si fa aiutare dal criminale e ne trae vantaggi".
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un’altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell’accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della ’ndrangheta. Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo. (p. col.)
REPUBBLICA.IT
SALERNO - "L’equilibrio tra provvedimenti giudiziari e la tenuta occupazionale di Riva Acciaio può risolversi con un apposito decreto". E’ la proposta del segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, che chiede un intervento del governo per scongiurare la chiusura dei sette stabilimenti del gruppo Riva e la ripresa della produzione. Il fermo degli stabilimenti - deciso dalla proprietà a seguito del sequestro di beni disposto dall’autorità giudiziaria - ha lasciato a casa oltre 1.400 lavoratori da un giorno all’altro.
"Occorre una norma - ha detto Camusso a margine della festa nazionale della Cgil Funzione Pubblica in corso a Salerno - che oggi non c’è e che è quella che garantisce continuità produttiva, rapporto con i fornitori, attività lavorativa. Bisogna farlo rapidamente prima che questo blocco determini la perdita del lavoro con la chiusura degli stabilimenti. Sono molto preoccupata - ha aggiunto Camusso - : è importante la cassa integrazione per i lavoratori, ma quello che stiamo chiedendo al governo non è la cassa integrazione, ma una norma che faccia ripartire in fretta l’attività dell’azienda".
"L’Ilva è un’impresa che funziona. Pretendiamo che torni a produrre. Lo Stato intervenga finanziariamente", ha detto il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti, a margine della Festa nazionale del Psi.
"La prospettiva della cassa integrazione per i lavoratori di Riva Acciaio è importante ma non sufficiente - ha detto invece il segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini - . Serve il commissariamento". La cig, ha detto Landini, "è importante perché la messa in libertà dei 1400 dipendenti da parte dell’azienda era stata una drammatizzazione insopportabile, considerando anche il mancato pagamento degli stipendi; utilizzare la cassa integrazione vuol dire tornare almeno alla normalità. Ma il vero problema è farli lavorare, la questione è la ripresa produttiva".
Per la Fiom l’unica strada è il commissariamento dell’intero gruppo: "E’ l’unica soluzione - ha detto Landini - serve il commissariamento di tutte le attività, perchè altrimenti il vero rischio è una drastica, pesante riduzione del gruppo". Per il segretario generale la responsabilità principale della situazione "è dell’azienda e della proprietà, che non ha fatto investimenti e ha violato leggi: ci sono responsabilità precise che vanno affrontate. Poi - ha detto - ci sono anche ritardi ed errori, dei governi e anche, non lo nascondo, dei sindacati".
D’accordo anche Marco Bentivogli, segretario nazionale Fim Cisl: "Sono convinto - dice - che il commissariamento del gruppo Riva sia la soluzione sulla quale si debba lavorare, ma questa soluzione ha tempi certamente non brevi mentre qui abbiamo un problema immediato: rimettere in moto l’attività degli stabilimenti finiti nel sequestro giudiziario e far tornare la gente al lavoro. L’autorità giudiziaria di Taranto deve trovare il modo di intervenire sul provvedimento che ha emesso nei giorni scorsi e assicurare la continuità delle attività e dei posti di lavoro senza nulla incidere sulle contestazioni fatte ai Riva".
Dal Veneto, coinvolto nella vertenza per lo stabilimento Riva acciaio di Verona (480 dipendenti), il presidente della Regione, Luca Zaia, ha affermato che il tema della cassa integrazione è il primo passo necessario, ma che poi bisogna mettersi al lavoro per salvare la siderurgia: "Dopo la chimica, dopo i cementifici - ha detto Zaia - , ora ci troviamo di fronte a un altro durissimo colpo al sistema economico nazionale e regionale, con un settore strategico per la nostra industria, messo in profonda crisi - ha aggiunto Zaia -. Un settore al quale non intendiamo assolutamente rinunciare. Con la situazione che si è creata, da un lato viene a mancare una fornitura nazionale, dall’altro si spalancano le porte a competitor internazionali, come la Cina, che si trovano un attimo mercato di consumo a portata di mano".
Toccata dalla crisi di Riva Acciaio, anche la Regione Piemonte convocherà un tavolo con le parti sociali sulla situazione. Lo ha annunciato l’assessore al Lavoro, Claudia Porchietto. Il presidente della Regione, Roberto Cota, ha espresso solidarietà alle famiglie dello stabilimento di Lesegno (Cuneo), interessate dalla chiusura. "Siamo vicini alle oltre 250 famiglie del sito di Lesegno - ha detto Cota -. Crediamo fondamentale costruire un intervento di carattere nazionale così come fatto per l’Iva a tutela dei livelli occupazionali".
Procura, sequestro non prevede divieto uso. Il provvedimento di sequestro "non prevede alcun divieto di uso" dei beni aziendali del gruppo Riva. Lo scrive la procura di Taranto in relazione ai sequestri dei giorni scorsi della Guardia di Finanza sui beni di alcune società collegate al gruppo la cui proprietà è la stessa dell’Ilva. "Il custode-amministratore - scrive sempre la procura - è autorizzato ex lege a gestire eventuali necessità di ordine finanziario".
"In particolare - aggiunge - i beni di cui sopra verranno immediatamente affidati, così come previsto dall’originario provvedimento del gip e allo scopo di evitare pregiudizi per la loro operatività, all’amministratore giudiziario, nominato a suo tempo dal giudice proprio allo scopo di garantire la loro gestione", in modo "da prevenire effetti negativi sulla prosecuzione dell’attività industriale, così come sta già avvenendo per le altre aziende precedentemente attinte dall’iniziale provvedimento di sequestro".
Sul fronte giudiziario, la procura di Taranto precisa che le disponibilità finanziarie sequestrate nei giorni scorsi dalla Guardia di finanza al Gruppo Riva ammontano a circa 50 milioni di euro, "pari a meno del 10 per cento di quanto sequestrato". La nota del del procuratore Franco Sebastio precisa che il valore totale dei beni sequestrati è di circa 600 milioni di euro: "Il valore complessivo del sequestro - scrive la Procura - è stato preventivamente stimato, sulla base delle poste patrimoniali indicate nei bilanci depositati dalle società colpite dal provvedimento, in circa 950 milioni di euro, ma attualmente sono stati attinti cespiti per un importo complessivo di circa 600 milioni di euro". Per l’esattezza, l’importo complessivo dei beni sequestrati è di 593.775.657,00 euro. Di questi, le disponibilità finanziarie bloccate sono pari a 49.094.482,00 euro.
IN PERICOLO GLI STIPENDI
TARANTO - All’Ilva di Taranto è alta la tesione anche se per il momento l’attività dell’acciaieria non è toccata. Si teme un "effetto-domino", che però allo stato sembrerebbe escluso sia perché due leggi - la 231 del 2012 e la 89 del 2013, rispettivamente "Salva Ilva" e commissariamento - "proteggono" l’Ilva stessa, sia perché quest’ultima azienda è una realtà che sta cercando di andare avanti con le proprie gambe. E’ soprattutto la situazione di Taranto Energia a preoccupare lavoratori e sindacati nello stabilimento jonico: i 114 dipendenti sono senza stipendio perché anche le risorse finanziarie della società che fornisce energia all’acciaieria sono finite nel calderone dei sequestri disposti a inizio settimana dal gip Todisco. La paura è che possa essere staccata la spina e che il grande mostro d’acciaio rimanga senza energia, eventualità per il momento escluse sia da fonti interne all’Ilva che dai vertici governativi. Così come dall’ufficio del commissario Bondi rassicurano che si troverà una soluzione al problema stipendi. Già oggi a Taranto è in programma un incontro per vedere come assicurare la paga agli addetti di Riva Energia.
Il ministro allo Sviluppo economico Flavio Zanonato è al lavoro per ricercare una soluzione che da una parte salvaguardi i diritti dei 1400 lavoratori e dall’altro assicuri il funzionamento dell’Ilva. "la nostra prima preoccupazione sono i lavoratori - ha assicurato nell’intervista di oggi a Repubblica dopo che ieri la famiglia Riva ha annunciato la chiusura di 7 stabilimenti dopo i sequestri della magistratura.
Il ministro che si dice sorpreso della decisione dei Riva visto che non c’è alcun atto nuovo da parte dei giudici dopo il sequestro annunciato a luglio, afferma di avere aperto un dossier. "Posso dire che non mi convince affatto - sottolinea - che si fermi un’attività produttiva come quella dell’acciaio che costituisce un asset decisivo nel nostro sistema paese. Zanonato spiega poi che sarà possibile concedere la cassa integrazione ai 1.400 Operai messi in libertà dall’azienda.
Quanto poi all’ipotesi di un commissariamento di tutto il gruppo Riva, non solo a Taranto, il ministro conclude: "Non sarei sincero se dicessi che non ci ho pensato. È un’ipotesi ma non so se sia una strada percorribile". Lunedì prossimo Zanonato incontrerà il presidente dell’Ilva, Bruno Ferrante.
CORRIERE.IT
«Il commissariamento di Riva Acciaio mi pare impossibile con la legge sull’Ilva». Così il ministro dello Sviluppo Economico, Flavio Zanonato che aggiunge: «si sta valutando se è tecnicamente possibile rivolgersi a tribunali civili per valutare l’eventualità di un sequestro che non blocchi i beni strumentali». Il ministro è stato intervistato da Radio 24 dopo la decisione del gruppo Riva di mettere in libertà 1.400 dipendenti per la chiusura di sette stabilimenti. Zanonato ha poi annunciato che l’azienda chiederà la Cig. «Giovedì prossimo ci sarà un incontro al ministero del Lavoro» ha detto il ministro aggiungendo «non so quanti soldi saranno disponibili». Da parte sua la società fa sapere che lo stop degli impianti «non si è trattato di una scelta aziendale, bensì di un atto dovuto». In sostanza, l’obbligo di ottemperare tempestivamente al provvedimento del Gip che «ordinando il sequestro, ha sottratto alla proprietà la libera disponibilità degli impianti e dei saldi attivi di conto corrente».
LAVORATORI - In ogni caso ha voluto rassicurare i lavoratori. «Stiano tranquilli: le aziende hanno mercato per l’acciaio, il problema è giuridico-finanziario e sono in condizioni di avere la cassa integrazione». Il ministro si muove con comprensibile cautela. «Sto cercando di farmi un’idea -ha detto- per capire attraverso il giudizio di tecnici se le acciaierie oggetto di sequestro possono funzionare anche con il sequestro dei conti correnti e, se sì, faremo pressioni sull’azienda». Al contrario, «se non possono funzionare, bisogna capire come intervenire per metterle in condizione di funzionare». Le acciaierie, ricorda il ministro, «sono di proprietà di Riva ma potrebbero essere anche aziende che operano in un campo diverso, non ci sono legami diretti con l’Ilva di Taranto».
NUOVO INCONTRO - La domanda che si pone Zanonato è «se ha senso andare a sequestrare i conti correnti con cui funzionano le aziende». Si tratta di «aziende vive e non decotte e l’obiettivo è quello di tutelare i lavoratori e la nostra industria». In giornata il ministro rivedrà i sindacati, già incontrati giovedì sera, e ha chiesto un incontro al presidente dell’Ilva Bruno Ferrante.
PEZZI DELLA STAMPA DI IERI
LUIGI GRASSIA
Si sta consumando in Italia un dramma industriale due volte più difficile da accettare perché non è dovuto a ragioni di mercato ma a questioni ambientali e alle vicende giudiziarie connesse, insomma a qualcosa che si dovrebbe poter risolvere con la buona volontà. Il gruppo Riva, proprietario dell’acciaieria Ilva di Taranto (commissariata per inquinamento), ha annunciato la cessazione immediata di tutte le attività in sette stabilimenti produttivi e in alcune società di servizio; le aziende coinvolte sono esterne al perimetro di gestione dell’Ilva, ma le chiusure vengono motivate col sequestro preventivo di 916 milioni di euro disposto dal Gip di Taranto e col fatto che questo avrebbe reso impossibili le attività del gruppo. Invece i sindacati (ma con vari accenti) accusano l’azienda di ricatto sui 1400 lavoratori che rischiano il posto.
ll provvedimento della magistratura, secondo il gruppo Riva, «sottrae all’azienda ogni disponibilità degli impianti e determina il blocco delle attività bancarie, impedendo pertanto la normale prosecuzione operativa della società». Si sono fermati gli stabilimenti di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero, Cerveno (Brescia) e Annone Brianza (Lecco) e le attività di servizi e trasporti (Riva Energia e Muzzana Trasporti). A Taranto non è coinvolta la grande Ilva (ora commissariata) ma solo una piccola società del gruppo, la Taranto Energia.
Con il gruppo Riva si schiera la Federacciai (la Confindustria della siderurgia). Il presidente Antonio Gozzi accusa: «Il drammatico provvedimento preso da Riva Acciaio rappresenta l’esito annunciato di un accanimento giudiziario senza precedenti, da me ripetutamente denunciato. È la conseguenza di un braccio di ferro tra magistratura e governo, con la magistratura che ha prevalso vanificando, di fatto, ben due leggi dello Stato, la legge 231 e quella successiva sul commissariamento».
Diversa la reazione dei sindacati. Maurizio Landini, segretario nazionale della Fiom Cgil, bolla la scelta di Riva come «un atto di drammatizzazione inaccettabile perché scarica sui dipendenti responsabilità non loro. Così la situazione non è più gestibile - incalza Landini - quindi chiediamo al governo di convocare con urgenza un tavolo e di dare il via al commissariamento, come previsto dal decreto Ilva, di tutte le società controllate dal gruppo, comprese Riva Acciai e Riva Fire, al fine di garantire l’occupazione e la continuità produttiva». Il segretario nazionale della Fim Cisl Marco Bentivogli «diffida l’azienda dal bloccare le attività» e la invita «a ricorrere immediatamente agli ammortizzatori sociali»; ma chiede anche alla procura «in tempi rapidi di scorporare dal provvedimento di confisca tutto ciò che impedisce la normale prosecuzione dell’attività produttiva e lavorativa». Secondo il segretario nazionale della Uilm Mario Ghini «le iniziative disposte dagli uffici del giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Taranto determinano una ripercussione negativa sulla produzione siderurgica».
Molte reazioni anche dai politici, soprattutto quelli dei territori colpiti dalle chiusure. Gianna Gancia, presidente della Provincia di Cuneo: «Prendiamo atto che in questo Paese è ormai impossibile fare impresa. Sacrosanto tutelare ambiente e sicurezza, ma va salvaguardato il lavoro, come prevede il primo articolo della Costituzione». Secondo il presidente della Regione Piemonte, Roberto Cota, «in un momento di difficoltà come questo bisognerebbe remare tutti nella stessa direzione, invece qualcuno rema nella direzione contraria senza accorgersi di danneggiare il sistema».
ZANONATO
Flavio Zanonato, ministro dello Sviluppo economico, non ha per niente apprezzato la decisione dei vertici del gruppo Riva di «vendicarsi» a spese di 1.500 lavoratori per il maxisequestro deciso dalla magistratura. Una mossa, quella dell’azienda siderurgica, che certamente non era attesa.
E che nelle stanze del ministero di Via Veneto ha sollevato insieme ira e sconcerto. Oggi il ministro Zanonato incontrerà il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante, e gli chiederà senza mezzi termini di rimettere a posto le cose facendo marcia indietro sui 1400 licenziamenti annunciati ieri mattina in ben sette stabilimenti sparsi per tutto il paese. Non è chiaro se il governo all’incontro si presenterà con in tasca qualche «carota» da offrire all’azienda per convincerla a rinunciare agli esuberi. Certamente il «bastone» è già pronto, con la riapertura del dossier a suo tempo abbandonato dal governo, quando ai primi di giugno si decise di evitare sia provvedimenti di commissariamento dell’Ilva che una drastica nazionalizzazione.
È ovviamente una partita a scacchi complicata quella in corso tra azienda ed Esecutivo. L’Ilva ha preso in ostaggio i suoi stessi lavoratori per cercare di avere dal governo qualche garanzia contro le iniziative della magistratura. Il governo risponde minacciando provvedimenti straordinari di eccezionale durezza, ma secondo i più qualche concessione all’Ilva dovrà pur farla.
Certo è che non appena appresa la notizia, il ministro Zanonato ha convocato una riunione della sua struttura di crisi, presente il sottosegretario Claudio De Vincenti. Successivamente ha sentito telefonicamente l’ex prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva. E visto che l’ affaire sta prendendo rapidamente una rilevanza che va molto al di là delle competenze specifiche del dicastero dello Sviluppo economico, come inevitabile Zanonato ha informato Palazzo Chigi Enrico Letta degli sviluppi della situazione. Alla fine, la convocazione (si presume per oggi) di Ferrante e di tutti i soggetti parte in causa al ministero, sindacati per primi. Ai sindacalisti il governo ha assicurato che ai lavoratori posti in esubero verranno garantite «possibili forme di tutela» per un certo arco di tempo. In altre parole, potranno ricevere se non altro l’indennità di Cassa integrazione guadagni.
Di sicuro il ministro dello Sviluppo economico è stato autorizzato da Palazzo Chigi a minacciare con l’Ilva il ricorso alla «arma fine di mondo»: nell’ordine, il commissariamento e la nazionalizzazione. Erano ipotesi che erano state in effetti prese in considerazione lo scorso mese di maggio, quando sembrava che l’azienda non avesse intenzione di fare la sua parte dal punto di vista economico per pagare gli interventi di bonifica ambientale.
RUOTOLO
on era mai successo prima, in questi termini. Neppure quando il gip di Taranto Patrizia Todisco aveva sfidato tutti - l’impresa, la famiglia Riva, la politica che cercava di neutralizzare gli effetti dei provvedimenti giudiziari - ordinando il sequestro del «corpo del reato»: un milione e settecentomila tonnellate di acciaio prodotto dal più grande impianto siderurgico d’Europa, Taranto, nei primi mesi del sequestro degli impianti con l’accusa di disastro ambientale. Ieri, i delegati degli impianti Riva acciaio di Verona, si sono sentiti fare questo discorso, mai così esplicito, dai dirigenti degli impianti: «Il gip di Taranto ci ha sequestrato tutto, non abbiamo più un euro, da domani (oggi, ndr) siete tutti in libertà e non sappiamo se e quando potremo pagarvi lo stipendio». Un anno e qualche settimana dopo, una vampata improvvisa di quella che i sindacati metalmeccanici non hanno difficoltà a definire «rappresaglia», rischia di alimentare un incendio catastrofico nel rapporto magistratura, impresa, politica. Mai in questi termini una dinasty industriale che conta, la famiglia Riva, ha tentato di spingere le maestranze, intanto i 1.500 dipendenti della Riva Acciai, contro i magistrati di Taranto.
Due passi indietro nel tempo. Due date importanti per capire cosa ha spinto i Riva allo scontro. Taranto, 6 settembre. Il gip Todisco ha firmato cinque misure cautelari, quattro in carcere e una ai domiciliari. E’ stata colpita la cosiddetta «struttura parallela» di comando della fabbrica. Funzionari fiduciari della famiglia Riva, alle dipendenze di società del gruppo, che dentro lo stabilimento Ilva di Taranto esercitavano un governo ombra. Un’acciaieria, insomma, eterodiretta. Anzi, il sospetto degli inquirenti è che il governo ombra contasse più dei vertici ufficiali. Per questo che anche a loro sono stati contestati gli stessi reati che portarono il 25 luglio del 2012 agli arresti di Emilio Riva e del figlio Fabio, del direttore dello stabilimento tarantino e degli altri dirigenti.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il sequestro preventivo dell’altro giorno, 11 settembre, «per una somma complessiva di oltre 916 milioni». In sostanza, i militari della Finanza di Taranto hanno sequestrato «altre 13 società a diverso titolo riconducibili al Gruppo Riva (e anche 71 milioni di euro di azioni Alitalia)». E’ andato in scena il secondo tempo di una partita il cui fischio di inizio risale al maggio scorso, quando il gip ordinò alla Finanza di sequestrate 8,1 miliardi nei confronti delle società Riva Fire, Riva Forni Elettrici e Ilva. Il gip aveva quantificato in 8,1 miliardi la «mancata messa in opera delle strutture necessarie all’ambientalizzazione dello stabilimento di Taranto». Siamo a questo punto. Alla rappresaglia in risposta a un sequestro giudiziario, a sentire i dirigenti degli stabilimenti coinvolti nella messa in libertà delle maestranze che hanno incontrato i rappresentanti sindacali. Il timore dei sindacati è l’effetto domino, l’entrata in crisi di tutto il sistema Riva-Ilva. La preoccupazione è che la famiglia Riva «scarichi sulla magistratura le responsabilità per nascondere la crisi di mercato che attraversa il settore e i prodotti non più competitivi». Va registrato che ai vertici del sindacato non si nasconde la preoccupazione che adesso vengano annunciati gli esuberi negli stabilimenti genovesi Ilva.
L’inchiesta giudiziaria della Procura di Taranto è ormai agli sgoccioli. A fine mese potremo scoprire l’esistenza di alcuni indagati eccellenti. I lavori per il risanamento degli impianti dell’Ilva, l’Aia, Autorizzazione integrata ambientale, muovono i primi passi. Molto lentamente. Il ministro dell’Ambiente Clini disse che occorrevano tra i 3 e i 4 miliardi, il presidente dell’Ilva Bruno Ferrante azzardò un 2.5 miliardi, L’attuale amministratore straordinario Enrico Bondi parla di 1,8. Ma sta ancora aspettando un finanziamento (giusto 1,8 miliardi) dalle banche.
CHIARELLI
L’ atteggiamento di questi magistrati nei confronti dei Riva è incomprensibile. Siamo all’accanimento giudiziario». Antonio Gozzi, professore universitario, industriale siderurgico (gruppo Duferco) e presidente di Federacciai, è furibondo per le conseguenze dell’ennesimo intervento della magistratura che ha disposto il sequestro di beni, conti e impianti di società del gruppo Riva. Gozzi ha appena partecipato a Gazoldo degli Ippoliti al funerale di Steno Marcegaglia, uno dei grandi della siderurgia italiana, e ne ha approfittato per un improvvisato summit con il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi.
Che cosa vi siete detti con il leader degli industriali?
«Che è vera emergenza. Squinzi parlerà subito con il presidente del Consiglio, Enrico Letta. Io affronterò il ministro dello Sviluppo Economico Zanonato. Serve un provvedimento che oltre all’Ilva copra altre aziende del gruppo. Ma poi che facciamo? Commissariamo tutte le fabbriche dei Riva?».
Intanto altre migliaia di persone rischiano posto e stipendio.
«Sarà sempre peggio. Si fermano le società di logistica e quelle che gestiscono le navi: presto si fermerà Taranto per mancanza di approvvigionamenti. Non a caso mi dicono che il commissario Bondi è furioso».
Ma come si è arrivati a questo punto?
«E’ la conseguenza di un braccio di ferro tra magistratura e governo, con la magistratura che ha prevalso vanificando ben due leggi dello Stato: la 231 e quella successiva sul commissariamento. Di fronte a ciò dobbiamo chiederci quali strumenti possiamo mettere in campo per garantire nel nostro Paese una reale libertà di impresa».
Qual è l’obiettivo dei magistrati, secondo lei?
«Credo che vogliano far fallire i Riva».
Non crede di esagerare?
«Lei dice? Magari poi un altro giudice dirà che i provvedimenti nei confronti dei Riva non sono giustificati. Ma intanto il gruppo sarà in default. La verità è che quei magistrati si comportano come se i Riva fossero dei malavitosi, dei boss mafiosi. Questo è inaccettabile. E poi non si considera l’effetto devastante di certi atti sui dipendenti, sui fornitori, sulla vita di migliaia di persone. Troppo facile dire che a lor signori non li riguarda».
Però i Riva sono accusati di aver sottratto più di 8 miliardi dalle casse dell’Ilva.
«Ma non sono mai stati chiamati davanti a un giudice a difendersi. C’è un calcolo fatto dai magistrati e solo quello conta. Su quel calcolo li buttiamo fuori dall’azienda e magari li commissariamo? Un bell’esproprio proletario. Fa venire i brividi».
Non venga a dire che sono dei santi...
«Questo no. I Riva hanno agito con arroganza e hanno commesso i loro errori. Ma presentarli come delinquenti di strada è troppo. Avrebbero dovuto contestare, come ha fatto Bondi, la perizia epidemiologica, perché Taranto è in linea con gli standard degli altri impianti europei».
Questo lo dice lei.
«Lo dicono gli esperti indipendenti. Le faccio due numeri. Dal 1995, quando ha acquisito l’Ilva dall’Iri, al 2012, Riva ha realizzato 4,2 miliardi di utili. A Taranto nello stesso periodo sono stati investiti 4,5 miliardi, di cui 1,2 miliardi in miglioramenti ambientali. Pochi? Non bastano? Può darsi. Ma non si può dire che non hanno fatto niente e sono fuggiti con la cassa».
DOMANDE E RISPOSTE IN ULTIMA PAGINA
Il gruppo Riva, che controlla anche la grande acciaieria Ilva di Taranto, chiude tutti gli stabilimenti. È un colpo grave per l’economia italiana?
Sì, se la chiusura sarà confermata il nostro Paese perderà una fonte importante di reddito, di occupazione e di introiti fiscali. Ci sarebbe da recriminare due volte perché quest’esito non deriverebbe da logiche di mercato (contro le quali c’è poco o nulle da fare), ma da problemi ambientali e vicende giudiziarie connesse.
Quanto è importante la siderurgia in Italia?
Forse si è diffusa l’idea che ormai noi italiani pesiamo poco, in un settore che (fra l’altro) viene percepito come non più all’avanguardia, meno tecnologicamente avanzato di altri. Ma in realtà l’Italia è uno dei grandi produttori mondiali di acciaio: è al secondo posto in Europa dopo la Germania e all’undicesimo assoluto. C’è stata una forte tendenza, nei decenni passati, a trasferire l’attività siderurgica dai Paesi sviluppati a quelli emergenti, ma da noi la produzione è cresciuta; ci sono state delle forti cadute legate alle crisi economiche, eppure il trend di medio-lungo periodo è stato positivo.
Che cosa dicono i numeri?
Nel 1990 in Italia sono state prodotte 25,5 milioni di tonnellate di acciaio (dato di Federacciai, cioè della struttura di Confindustria che ospita i produttori del settore), aumentate a 27,8 milioni nel 1995. Poi c’è stata una quindicina d’anni di crescita coronata dallo sfondamento di quota 30 milioni di tonnellate fra il 2006 e il 2008. Quindi nel 2009 è arrivato il crollo, traumatico, a 19,8 milioni di tonnellate per colpa della grande crisi economica globale. Ma già l’anno dopo si è assistito alla rimonta a 25,8 milioni e nel 2011 l’Italia ha migliorato le posizioni fondendo 28,7 milioni di tonnellate di acciaio. Nel 2012 purtroppo è tornata la recessione e il conto è sceso a 27,2 milioni, comunque lusinghiero, da settore portante della nostra economia.
Come stanno andando le cose nel 2013?
Male. Quest’anno la crisi nel settore si è sentita di più che nel 2012. Fra gennaio e luglio 2013 si è registrato ogni mese un calo rispetto al corrispondente mese del 2012, anche se la curva del regresso ha manifestato la tendenza ad appiattirsi, dal -21,6% di gennaio al -14,5% di luglio. La produzione cumulata fra gennaio e luglio nel 2012 era stata di 17,2 milioni di tonnellate, mentre nel gennaioluglio 2013 c’è stato un riflusso a 14,7 milioni. Andando avanti così, a fine anno potrebbero mancare da tre a cinque milioni di tonnellate e la produzione italiana scenderebbe a 22 o 24 milioni. Anche così ridimensionati resteremmo secondi in Europa e undicesimi nel mondo. Ma la produzione e l’occupazione del settore precipiterebbero nel baratro se davvero tutti gli stabilimenti nazionali del gruppo Riva venissero chiusi.
Qual è il panorama della siderurgia nel mondo?
I cambiamenti nel settore dell’acciaio sono stati drastici e questo fa apprezzare ancora di più la capacità delle nostre aziende di reggere le posizioni globali (finora). La Cina si è mangiata quasi tutto il mercato e adesso produce più di 600 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. Fuori dai suoi confini restano grandi produttori (a lunga distanza) il Giappone con circa 150 milioni di tonnellate e gli Stati Uniti con un centinaio. Seguono India, Russia e Corea del Sud e poi la Germania, primo produttore dell’Europa occidentale, che in un’altra epoca storica fu numero due al mondo dopo gli Usa ma adesso si deve accontentare della settima posizione (con 32 milioni di tonnellate). La incalzano l’Ucraina, il Brasile e la Turchia, poi viene l’Italia insidiata da Taiwan (altri cinesi...) e dal Messico. Al 14° posto la Francia (che nella graduatoria del Pil viene prima dell’Italia). Non siamo messi male, ma sarebbe grave se ci distruggessimo da soli.
In che condizioni si trova l’Italia dal punto di vista dell’export?
Anche questo per noi è un aspetto lusinghiero. Il nostro acciaio è molto apprezzato nel mondo e di conseguenza quasi tutto quel che esce dagli stabilimenti viene esportato. Nel 2011 su 28,7 milioni di tonnellate fuse ne sono state esportate circa 20 milioni, con grande beneficio per la bilancia commerciale italiana. Ritorna il concetto: se per disgrazia le nostre acciaierie chiuderanno non sarà perché manca la domanda, tanto meno quella estera.
Come si è evoluta l’occupazione nel settore in Italia?
Almeno per ora non è stata molto influenzata dagli alti e bassi del mercato ma piuttosto dall’innovazione tecnologica. Nel 1990 l’acciaio in Italia pagava circa 56 mila posti di lavoro, poi ci sono state le razionalizzazioni che nel 1996 hanno fatto scivolare la cifra sotto i 40 mila. Da allora non ci sono stati altri tagli, anzi per qualche tempo il numero dei posti è tornato sopra i 40 mila. Di recente la forza lavoro ha ricominciato a erodersi, ma speriamo che si possa evitare il dramma delle chiusure collettive.