Vittorio Sabadin, La Stampa 14/9/2013, 14 settembre 2013
La sonda Voyager I, lanciata con la gemella Voyager II nel settembre del 1977, ha lasciato il sistema solare ed è il primo oggetto costruito dall’uomo a viaggiare nello spazio interstellare
La sonda Voyager I, lanciata con la gemella Voyager II nel settembre del 1977, ha lasciato il sistema solare ed è il primo oggetto costruito dall’uomo a viaggiare nello spazio interstellare. A bordo, trasporta un disco placcato d’oro che contiene informazioni sulla Terra e sui suoi abitanti, destinate a civiltà aliene. Ma se mai ne incontrerà una, gli extraterrestri si faranno una pessima idea sul nostro conto, al punto che potremmo non essere in grado di capire una loro eventuale risposta. In 36 anni di vagabondaggio nel sistema solare, il Voyager I ha studiato i grandi pianeti gassosi Giove, Saturno, Urano e Nettuno, e si trova ora a 19 miliardi di chilometri dalla Terra. Alla velocità di 17 chilometri al secondo è entrato nello spazio tra i sistemi planetari della galassia, un ambiente sconosciuto nel quale si ritiene che la densità di particelle sia maggiore. È stata proprio la rilevazione di una variazione di densità a convincere la Nasa che il confine del sistema solare era stato varcato il 25 agosto scorso, una data storica. «Questo evento – ha detto ieri il responsabile del programma, Ed Stone – è paragonabile alla prima circumnavigazione del globo o alla prima impronta umana sulla Luna. Non eravamo mai andati nello spazio fra le stelle». Alimentato da batterie al plutonio, il Voyager potrà funzionare fino al 2025, quando si troverà a 25 miliardi di chilometri dalla Terra. La speranza di Carl Sagan e degli scienziati che idearono il disco d’oro era che magari, da qualche parte nello spazio, e per una coincidenza molto fortunata, un’astronave aliena si imbattesse nella piccola sonda. Ma se accadrà, agli occupanti della nave spaziale il Voyager sembrerà l’equivalente di una piroga preistorica, manovrata con tecnologie davvero bizzarre. Ideata negli Anni 60 e costruita un decennio dopo, la navicella era stata progettata per autogovernarsi con un sistema di tre computer interconnessi: uno controllava i parametri di navigazione, l’altro i sistemi di controllo e il terzo gestiva i primi due. All’avanguardia all’epoca, i tre computer possono processare 8 mila istruzioni al secondo, una parte infinitesimale di quello che fa oggi un qualunque smartphone, che nella stessa frazione di tempo gestisce 14 miliardi di operazioni. Anche i sistemi di registrazione e trasmissione sembreranno agli alieni un po’ obsoleti: i dati vengono registrati su un nastro magnetico a otto piste, cancellato e riavvolto ogni sei mesi, e inviati alla Terra con un segnale da 23 Watt, la potenza di una radio amatoriale. Gli extraterrestri arriverebbero alla conclusione che non abbiamo sistemi di comunicazione come Internet, ignoriamo la telefonia mobile, i cavi a fibre ottiche, le nanotecnologie e i supermetalli. Se poi trovassero il modo di fare funzionare il disco d’oro, facendolo girare alla velocità prevista di 16 giri e 2/3 al minuto, vedrebbero 115 immagini della Terra e dei suoi abitanti, ascolterebbero il suono del mare, il cinguettio degli uccelli e il canto delle balene, ma sentendo i brani di musica registrati penserebbero che «Johnny B. Goode» di Chuk Berry sia in testa alla hit parade. In ogni caso, se decidessero di risponderci, gli alieni userebbero per farsi capire la nostra stessa tecnologia, un po’ come fanno nei vecchifilm gliesploratoriparlando in modo scemo ai selvaggi. Ma se mai ci arrivasse un segnale da loro, potremmo non essere più in grado di comprenderlo: la Nasa ha già ammesso che non dispone più del software necessario ad analizzare le immagini della vecchia telecamera del Voyager, che è stata spenta. Alla velocità attuale, la sonda impiegherà 40 mila anni ad arrivare in un altro sistema planetario e in quell’epoca gli esseri umani non ricorderanno nemmeno più che una volta esistevano nastri a otto piste e grammofoni a 16 giri.