Riccardo Staglianò, il Venerdì 13/9/2013, 13 settembre 2013
UN GIORNO NEL FUTURO
L’astinenza dagli umani inizia appena atterrato. Non esistono più biglietterie con operatori a sangue caldo, ma solo macchinette automatiche con un prezzario molto chiaro per ogni possibile destinazione. Va tutto liscio tranne per la ricevuta (lo dico per l’ufficio note spese) che dimentico di chiedere subito. Ci fosse stato un omino avrei potuto recuperarla dopo aver pagato, qui se cambi l’ordine dei fattori il prodotto cambia irreparabilmente. Uscito dalla fermata interrogo Google Maps sul cellulare. Tenderloin, il cuore di tenebra di downtown, è sempre stato il paradiso degli homeless, ma la crisi sembra averlo bombardato con l’effetto finale di un’evasione in massa da un ospedale psichiatrico. Arrivo spedito, senza dover chiedere mai. Sulla porta del bed and breakfast c’è un codice per entrare. Così facendo hanno dimezzato il personale, presente solo la mattina. Se vuoi un consiglio su un ristorante vicino, puoi chiedere al sito Yelp! Ma è così tardi che passa la voglia.
Allora prenoto la sveglia per l’indomani su Wakeupdialer.com. Ti chiama al numero telefonico che vuoi, ogni giorno con un messaggio scelto a caso da un repertorio di un attor comico britannico.
Prima di dormire un bel bagno è quel che ci vuole. Ci sono anche i sali, per il cronista così esotici che dall’emozione cadono in terra e inondano il pavimento. Però nel corridoio mi sembra di aver visto un Roomba, quegli aspirapolvere che fanno tutto da soli. Lo sguinzaglio nel bagno e mi chiudo dietro la porta. Lo osservo mentre pulisce, familiarizzando per tentativi ed errori con il contorno dei muri. È un disco di plastica da 40 centimetri di diametro. Zeppo di sensori, tra cui dei filamenti che girano sporgenti come vibrisse di gatto, valutando la consistenza di possibili ostacoli. In pochi minuti, in una scena che ha qualcosa dell’Apprendista stregone disneyano, ingoia tutti i cristalli rosa e lo posso rimettere a cuccia sul suo caricatore, dove del resto era in grado di tornare anche da solo. Gli sono sinceramente riconoscente per avermi evitato la corvée notturna. Però poi penso che Alina, la signora ucraina che mi aiuta in casa, non condividerebbe tanta gratitudine. Per lei il bassotto meccanico è più pericoloso di un pitbull.
Anche Robert Reich, professore a Berkeley ed ex ministro del lavoro con Clinton, la vede più o meno allo stesso modo. In Inequality for All, il documentario di cui è protagonista che sta per uscire nelle sale statunitensi, ammonisce: «Scegliere di non fare il biglietto alle macchinette è un atto politico». Ovvero, più cassoni di latta negli androni meno uomini e donne dietro agli sportelli. Il dibattito è aperto, e sta in questi termini: robot e software sono sempre più intelligenti. Prima sostituivano solo i colletti blu, nella manifattura, ora anche i colletti bianchi, nelle occupazioni più creative. Dovremmo rallegrarci per la fatica sventata o cominciare sul serio a preoccuparci?
La California è sempre il posto giusto per vedere il futuro all’opera. Ho prenotato online via Expedia un’auto a noleggio. L’unica caratteristica vitale è che abbia il navigatore. Sarà lui il mio vero compagno di viaggio. Mentre mi guida senza esitazioni tra svincoli e superstrade capisco Maxwell Sim, il personaggio dell’omonimo romanzo di Jonathan Coe, che battezza Emma la sua voce rassicurante e finisce per innamorarsene.
La prima tappa è l’ospedale della University of California a San Francisco. Qui è in funzione la farmacia più robotizzata del mondo. Le macchine che ogni giorno, quattro volte al giorno, preparano le migliaia di dosi per i pazienti di tutti i reparti sono costate 1,5 milioni di dollari e sono state concepite nella filiale di Maranello della Swisslog. È la Ferrari dell’automazione nel settore sanitario. Tyler Blackman, il ragazzo che mi accompagna nella visita dopo una bardatura igienizzante degna di Csi, indulge nelle tecnicalità. Il concetto chiave però è: «Il suo tasso di errore è zero. Non zero virgola qualcosa, zero. Perché il robot non guarda, conta». È tutto un tripudio di codici a barre Qr e, da questa settimana, di etichette Rfid, simili a quelle antitaccheggio che mettono negli abiti. Se, prima di somministrarle, l’infermiera punta il lettore sulla cartella clinica e qualcosa non torna il sistema dà l’allarme e ferma tutto. Il primato tecnologico sta in un mare di altri decisivi dettagli che l’ospite sciorina con competenza e velocità preternaturali. Altro dato notevole: «Prima, per fare lo stesso lavoro ci volevano sei tecnici e quattro infermieri, ora ne bastano uno e uno». Un aumento di produttività di cinque volte e, potenzialmente, una pari riduzione di personale («per adesso sono stati spostati a compiti più impegnativi»). Tuttavia l’articolo del mensile Fortune dove avevo letto questa storia mentiva: «Una farmacia il cui unico personale è un robot». Meno di prima, ma qui i bipedi sopravvivono.
Gli esseri umani, come ricordava la guida, più che contare vedono. A volte stravedono, magari per drammatizzare un po’ e fare bella figura. Chissà se sarebbe potuto succedere in una cronaca di Narrative Science. La compagnia di Chicago ha creato un software che compila un articolo a partire dai dati bruti. Lo fa già nei resoconti sportivi e finanziari, e non è che l’inizio. Forbes, tra gli altri, lo utilizza per le brevi sull’andamento dei titoli azionari. Il vantaggio per gli editori è evidente: il costo della licenza è poca cosa in confronto agli stipendi dei giornalisti.
Addirittura Post-Industrial Journalism, il rapporto sponsorizzato dalla Columbia University, parla di un futuro prossimo in cui la parte bassa della produzione sarà delegata alle macchine. Considerato che dal 2000 a oggi negli Stati Uniti le redazioni si sono ristrette del 30 per cento, non è una previsione tranquillizzante. Scrivono gli esperti: «I giornalisti saranno dislocati, non rimpiazzati», che è la solita solfa per cui se le macchine (o gli immigrati) ci liberano dai compiti ripetitivi noi potremo dedicarci a quelli più sofisticati e creativi. Non mi sembra che stia andando proprio così, ma magari migliorerà.
Video killed the radio star, cantavano i Buggles. I web-video uccideranno i prof? Per cercare di capirlo il mio angelo custode satellitare mi scorta fino a Mountain View, nel cuore della Silicon Valley. In un’anonima palazzina Coursera, che offre lezioni universitarie online a oltre quattro milioni di persone nel mondo, ha appena raddoppiato gli uffici, allargandosi su due piani. Prima di co-fondarla Andrew Ng era il direttore del dipartimento di intelligenza artificiale a Stanford. Dunque parte integrante di quel «professoriat», la casta accademica, che – stando a un editoriale del coltissimo quadrimestrale n+1 – rischia il colpo di grazia proprio a opera di massive open online courses come la sua creatura. La rivoluzione, più che nei video interattivi, sta proprio nelle modalità di correzione dei compiti: «Per i test a risposta multipla ci pensa direttamente il computer. Per quelli aperti, più discorsivi, la valutazione è delegata al peer grading. Abbiamo scoperto infatti che la media dei giudizi di altri dieci studenti che ne sanno un po’ della materia è più affidabile di quella di un dottorato solo che ne sa tanto». Senza la correzione automatica un corso come quello che lui stesso ha tenuto l’anno scorso con 10 mila studenti online sarebbe inconcepibile. Non sembra affatto preoccupato di aver creato il Golem che lo distruggerà: «Per quale motivo ricorda i suoi docenti universitari? Non certo per come le correggevano i compiti, ma per l’interazione individuale, i consigli, le chiacchierate. Ecco, liberandoli da una scocciatura avranno più tempo per fare proprio quello». Sì, però di quanti insegnanti si potrà fare a meno se lui da solo ne serve 10 mila?
Preferirei arrendermi e ammettere che la preoccupazione è soltanto mia, magari dettata da troppe letture recenti di tecnoscettici alla Evgeny Morozov o Jaron Lanier. Però è difficile ignorare libelli come Race Against the Machine. L’hanno firmato, ormai due anni fa, Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, entrambi del Mit di Boston, da sempre uno degli atenei più tecno-ottimisti, denunciando quanto l’«impatto delle tecnologie digitali sull’erosione del valore del lavoro sia poco capito e molto sottovalutato». Ma anche il premio Nobel Paul Krugman, sul New York Times, affronta il tema sempre più spesso. Fino a dieci anni fa circa i tre quarti della ricchezza finiva in salari, oggi siamo al sessanta per cento. Prima li hanno ridotti con la delocalizzazione, ora l’automazione spinta consente di rientrare in patria, ma con paghe da robot.
A pochi chilometri da Coursera c’è il leggendario Googleplex, il quartier generale del motore di ricerca più famoso. La frontiera estrema della loro sperimentazione riguarda l’auto senza pilota. L’hanno testata per centinaia di migliaia di chilometri e l’unico incidente è stato causato da un intervento umano. Prima di quanto immaginiamo, sostengono, potremo farci scorazzare in giro intenti a leggere il giornale nel posto del passeggero. Se hanno ragione, tassisti e camionisti, com’è già successo ad agenti di viaggio e cassieri di banca, sono destinati alla pattumiera della storia. Per motivi che mi sfuggono – prima avevano detto di sì, poi no – alla reception del quartier generale non mi fanno neppure parlare con l’ufficio stampa. Il contatto deve avvenire via email e, per quanto mi consta, la risposta che non accettano ospiti a bordo può averla anche compitata l’algoritmo. Ho giusto il tempo, come minima vendetta, di approfittare di un frozen yogurt della pantagruelica mensa aziendale, la cui porta è rimasta accidentalmente aperta.
A dieci minuti di distanza, in questa metropoli diffusa che è la valle del silicio, c’è l’università di Stanford dove, negli anni 70, Vinton Cerf ha inventato il protocollo cardine di internet. Pochi anni dopo è arrivato il professor Oussama Khatib, siriano di Aleppo e potenziale controfigura canuta di Al Pacino, per formulare fondamentali teorie sulla sensibilità dei robot. Ora dirige il dipartimento di robotica nel palazzo Gates, finanziato da Bill in onore del padre, e lavora con dottorandi turchi e finlandesi a un robot-sommozzatore e a un sistema di teleintervento per chirurghi che neutralizzi il rischio di tremori e altre debolezze umane. Sulla Google Car però ci va piano: «Se il compito è ben definito, i robot possono procedere da soli. Quindi si può pensare a un’auto che se la cava nel deserto o nelle nostre spaziose highway, ma se introduciamo un numero di variabili come nel traffico di certi quartieri di Napoli la faccenda cambia. Io parlerei quindi di aumento delle nostre funzioni, piuttosto che di autonomia e sostituzione». Certo, gli aerei volano per gran parte del tempo con il pilota automatico, ma i cieli sono notoriamente meno imprevedibili dei Quartieri Spagnoli.
Il catalogo è ampio. Rodney Brooks, ex-collega di Khatib a Stanford, ha messo in produzione Baxter, robot manufatturiero che costa quasi un quinto di quelli precedenti e non necessita di essere riprogrammato ogni volta da uno specialista. Si prevedono invasioni nelle piccole imprese. La newyorchese Ipsoft ha realizzato Eliza, una centralinista virtuale che risponde alla milionesima telefonata con la stessa grazia della prima, senza mai doversi assentare per la pipì.
Ibm, dopo che il suo Deep Blue ha stracciato Kasparov, prova a replicare con Watson, prossimamente possibile medico elettronico capace di setacciare tutte le banche dati mediche e prendere in considerazione una quantità di ipotesi diagnostiche che un umano non riesce a dominare. In un futuro prossimo non è da escludere che i poveri si auto-curino su internet e gli specialisti in carne e ossa restino appannaggio dei ricchi.
Abbasso il finestrino dell’auto per prendere una boccata d’aria. Il tempo libero sarà il lusso supremo, vaticinò per il millennio in corso il filosofo Enzensberger. Ora possiamo aggiornare la profezia: sarà il contatto umano. Il navigatore, con monotona cortesia, mi dice di procedere per nove miglia. Per il suo annuncio ha interrotto una canzone di Norah Jones che andava forte qualche anno fa. Ricordo di aver letto che un software, analizzando i brani del disco prima che uscisse e comparandone la forma e la sequenza delle onde rispetto ad altri successi del passato, aveva previsto un numero record di pezzi in classifica. Ora tutti i discografici, con sprezzo del pericolo, vogliono interpellare l’oracolo di Music Xray.
Nel cinema un programma simile per valutare i soggetti potenziali blockbuster si chiama Epagogix, un tributo al procedimento induttivo aristotelico. Era un lavoro con competenze editoriali avanzate, potrà diventare una sofisticata routine informatica?
Kurt Vonnegut aveva già immaginato tutto. In Suonatore di pianoforte, il suo primo romanzo del ‘52, prefigurava un mondo in cui il supercomputer Epicac XIV prendeva tutte le decisioni mentre gli ingegneri erano diventati i suoi umili servitori. Il resto della gente, emendata dal lavoro, restava in casa a ingannare il tempo, guardando la televisione o «scopando come conigli». La tv oggi è quel che è. E la robotica non risparmia ormai neppure la seconda opzione.
Alla fiera del porno di Las Vegas, celebrata nel solito pezzo magistrale da David Foster Wallace, tre anni fa è stata presentata Roxxxy, una bambola sessuale che si muove e parla. All’indomani dell’annuncio alla TrueCompanion arrivarono circa quattromila pre-ordini, ma nessuno sa chi l’ha portata davvero a casa. Douglas Hines, il fondatore, mantiene la privacy sui numeri ma annuncia novità imminenti: «Abbiamo fatto sviluppi decisivi sia sull’hardware che sull’intelligenza artificiale. Le mandiamo il comunicato stampa non appena sarà pronto». Non ho più saputo niente. Meglio così. L’astinenza dagli umani è di una noia mortale.
Riccardo Staglianò