Sette 13/9/2013, 13 settembre 2013
L’8 SETTEMBRE DEI LETTORI
Un ricco falò
Avevo 15 anni l’8 settembre del 1943, e vivevo a Ragusa nell’edificio della Banca d’Italia dove mio padre era il custode con abitazione nel palazzo. Il 9 o l’8 luglio furono affissi in città i manifesti con cui si informava la popolazione di possibili imminenti combattimenti con gli “invasori” sbarcati in una zona della costa molto vicina a Ragusa. [...]. Erano state date disposizioni da Roma che nell’imminenza del pericolo di essere invasi dal nemico, la Banca d’Italia locale avrebbe dovuto distruggere tutto quanto avesse valore e potesse essere espropriato “manu militari”. Pertanto nel cortile della banca ebbe inizio nel pomeriggio dell’8 o del 9 l’eliminazione delle banconote, cominciando ovviamente da quelle di grosso taglio (nella foto che vi allego, mio padre è quello al centro), dando fuoco a esse dopo aver formato due o tre falò nell’ampio cortile, nel quale c’era pure l’ingresso della nostra abitazione. Io sono rimasto sveglio tutta la notte a guardare questi falò fino a quando verso le 7 del mattino fummo avvisati che erano entrate in città le prime jeep degli invasori, senza sparare un colpo e perfino applauditi da persone che si erano disposte lungo la via Vittorio Emanuele, il corso principale di Ragusa. [...] Questo arrivo delle avanguardie interruppe l’operazione di distruzione del denaro, rimasta per altro incompleta (mi pare che si trattasse di bruciare 5-6 milioni di lire) essendo rimaste da bruciare le banconote di piccolo taglio e il sotterramento delle monete. Gli alleati ignorarono il nostro lavoro. Avevano già preparato le loro AM-Lire! [...].
A. Caruso, Milano
Un’azione partigiana particolare
L’8 settembre del 1943 ero un ragazzino di 7 anni e mezzo. Ero sfollato con la mia mamma a Cura di Vetralla, un paesino a nord di Roma. Dalla radio, ma soprattutto dall’intensificarsi dei passaggi di aerei e dai carri armati e autocolonne tedesche che si dirigevano verso Roma, avevamo capito che era successo qualcosa di grave e importante: l’armistizio. Era diventato ufficiale quello che già era nell’aria: i “nemici” ora erano i tedeschi di Hitler. Con l’aggravante che li avevamo in casa. La mamma decise che era meglio tornare a Roma per ricongiungerci con il papà che era rimasto a casa. Così, di buon mattino, andammo alla stazione che si trovava accanto a dove stavamo. C’era poca gente e di lì a un po’ arrivò un treno con solo 2 o 3 vagoni. [...] Dopo una ventina di chilometri, a Oriolo Romano, il treno fu bloccato. Il macchinista ci venne a dire che gli avrebbero permesso di tornare indietro. Ci suggerì quindi di avviarci a piedi lungo il sentiero che costeggiava la ferrovia; lui quando sarebbe riuscito a ripartire, ci avrebbe raccolti per riportarci indietro.
[...] Eravamo un gruppo di una ventina di persone; stavamo per avviarci a prendere il sentiero accanto alla ferrovia quando dal canneto a lato della strada sbucò un gruppo di soldati italiani, in divisa. Erano letteralmente terrorizzati e quasi piangendo ci chiesero aiuto. Quello che aveva assunto la guida del nostro gruppo si mise a urlare: «Nascondetevi! Se ci vedono qui con voi ci becchiamo tutti una sventagliata di mitra!». In quella, vediamo sbucare dalla curva in fondo al rettilineo della strada un carro armato, e quindi tutti, noi e i soldati italiani, ci buttammo dentro il canneto per nasconderci dalla autocolonna che sopraggiungeva. I “grandi” del nostro gruppo si misero a discutere cosa fare. I soldati ci dissero che dovevano traversare la strada e la ferrovia per raggiungere, nelle colline dietro, dei gruppi di partigiani [...]. Il problema era però come attraversare la strada e la ferrovia senza essere intercettati dalle colonne tedesche. [...] occorreva qualcuno sulla strada che non destasse sospetti per cogliere uno dei momenti di interruzione tra una colonna e l’altra. [...] Un uomo – o peggio una donna – solo in strada in quel frangente e a quell’ora poteva attirare l’attenzione non amichevole dei soldati tedeschi. Sentii tutti gli sguardi puntati su di me; in effetti l’unico che poteva non destare sospetti ero io. Fu così che mia mamma prese la decisione eroica. Mi disse: «Luigi, vai tu sulla strada, fai finta di niente, e soprattutto non guardare verso di noi. Quando vedi che c’è una interruzione delle autocolonne, ci fai segno». Mi avviai baldanzoso e molto fiero della mia missione e mi ripetevo «Fai finta di niente, fai finta di niente» … come arrivai sulla strada, vidi una colonna di carri armati e camion arrivare e mi venne una gran paura: «fai finta di niente» … Fai finta di niente? Come si fa a fare finta di niente quando sei lì, solo, su una strada e ti vedi un carro armato che ti viene contro? Non so se è stata la paura o un provvidenziale intervento del mio angelo custode al quale mi piace credere, fatto sta che presi la decisione più opportuna. Mi sono girato, sbottonato i pantaloncini, e mi son messo a fare pipì contro uno degli alberi sul ciglio della strada. La colonna, col carro armato in testa, passò a meno di 2 metri da me, con gran rumore di cingoli e motori e con i soldati tedeschi che, ridendo e urlando, mi facevano grandi gesti di saluto e di incoraggiamento alla mia pipì. [...]. Finito il passaggio, e la pipì, e prima che sopraggiungesse un’altra autocolonna, feci il segno. I soldati italiani che nel frattempo si erano acquattati quasi sotto di me nel canneto a lato della strada, mi passarono correndo accanto, con grandi sorrisi verso di me, traversarono in un attimo la strada e la linea ferroviaria, dileguandosi nella boscaglia dalla parte opposta. Questa fu la mia azione partigiana. [...] Ancora oggi, a distanza di tanti anni, mi ritengo virtualmente insignito di una “minzione d’onore” al merito della Resistenza.
Luigi Vannutelli
Con decisi tratti di penna ho cancellato da queste mie memorie i numerosi racconti di avvenimenti, storie, episodi che, seppure da me vissuti in prima persona, hanno già trovato spazio nelle testimonianze pubblicate a suo tempo da altri. Ho voluto conservare solo quei ricordi, tratti dal mio diario degli anni 1943/1945, che – nitidi fotogrammi per nulla sbiaditi – rimangono ancora oggi nella mia mente perché sono le emozioni, gli stupori di un ragazzino che ha vissuto, forse senza rendersene conto, dei mesi tragici della sua terra.
[...]
L’armistizio e il dottor Colledan
8 settembre 1943, ore 20. “Gesù, Gesù”, dice il papà dopo aver ascoltato alla radio l’annuncio dell’armistizio. “E mo’ che succederà?”. Suona il campanello: è Andreina; vuole partecipare con noi alla gioia per la fine della guerra; ma il papà sembra preoccupato. Sentiamo provenire dalla strada voci di giubilo; al di là della siepe, dietro la cucina, il direttore della Banca dott. Colledan invita tutti alla calma, prevedendo anzi tempi difficili: che farà l’alleato tedesco? Esaltazioni di gioia e cupi presentimenti.
La gavetta di minestrone
9 settembre 1943. Il geniere alpino Efrem, piantone fisso presso gli uffici del Genio militare situati a Villa Lequio, gioisce per l’armistizio. Eccitatissimo, mi passa, attraverso la rete di recinzione, la gavetta colma di minestrone che poco prima l’ultima corvè gli aveva portato dalla caserma. «Te lo regalo, mangia», mi dice, «parto subito, torno a Bologna dalla mamma: stasera mangerò la lasagna». Nota: La gavetta, con inciso il nome del geniere, venne conservata, in cantina, per molti anni, quale contenitore di viti e chiodi usati.
[...]
Cecchino e il fucile mod. 91
9 settembre 1943, pomeriggio. Suona il campanello: vedo, al di là del cancello, un gruppo di alpini armati, piuttosto agitati. Bestemmie. Apro, si fa avanti Cecchino di Ampezzo, amico di famiglia e compagno di scuola di T. Con gli occhi spiritati si guarda attorno e, tra una bestemmia e l’altra, mi chiede di prendere e nascondere per qualche ora il suo fucile 91 con le giberne piene di colpi e la baionetta. Lo appoggia al muro, sotto il glicine. Altri quattro o cinque alpini fanno altrettanto. Mi è difficile scordare le innumerevoli bestemmie e gli epiteti più sconci e scurrili rivolti, in stretto dialetto carnico, ai loro superiori – in particolar modo a un sergente – perché non sapevano, non potevano dare ordini, o consigli sul da farsi: tutti a casa? I fucili più alti di me pesano molto: in tre viaggi li porto in cantina e li sistemo dietro una catasta di legna. Dopo alcune ora ricompare Cecchino e con i suoi amici riprende le armi. Nel corso dell’ultima salita dalla cantina la mamma si accorge dello strano movimento e degli … attrezzi che porto sulle spalle. La vedo un po’ perplessa.
La canea urlante
11 settembre 1943, alba. Vengo svegliato da rumori insoliti e da un chiacchiericcio allegro e continuo; esco sul terrazzino e scorgo – stupefatto – una moltitudine di persone provenienti dalla vicina caserma degli alpini che spingono, trascinano carri, carretti, carriole pieni di oggetti saccheggiati nella caserma. I miei ricordi sono fissati su: un uomo che conduce tre muli con relativo basto carico di coperte; due donnette, piccole e macilente, una davanti e l’altra dietro, che portano con fatica sulle spalle due o tre brande piegate; una bambina che regge un fagotto più grande di lei contenente i teli delle brande; due ragazzotti che portano sulle spalle un bastone infilato nei manici di una gigantesca pentola che serviva per cuocere la pasta o il minestrone per l’intera compagnia; un giovane che spinge una carriola piena di stoviglie; un camioncino “a gasogeno” carico di armadi, sedie, panche e sgabelli. Il tutto accompagnato da una canea urlante con in spalla fucili, piccozze, sci, cassette, vetri ecc… Molti urlavano: «È finita, è finita!!!!». Poveri tapini: non sapevano cosa sarebbe poi accaduto. Nel corso della notte precedente, seppi poi, erano state svuotate le cucine e i magazzini viveri della caserma nel più completo silenzio, per godere in pochi dell’appetitoso bottino.
Le bianche piastrelle
12 settembre 1943. Con Bruno, Loris e altri entro nella caserma devastata e svuotata. Quasi timorosi e rispettosi giriamo per i vari locali: tutto è disordine, sporcizia e desolazione. Non c’è una cosa a posto: hanno smontato, o divelto, o distrutto porte, finestre, vetri, anche i fuochi delle cucine con i mattoni refrattari. Un ragazzo con un grosso martello picchia sulle bianche piastrelle che rivestono i muri della cucina e dei servizi e, con meticolosa precisione, le rompe tutte al primo colpo.
L’edelweiss sull’elmetto
13 settembre 1943, pomeriggio. Ci siamo quasi tutti sulla panchina e attorno a essa sotto gli ippocastani. Un rumore sordo e inusuale ci distoglie dai nostri soliti scherzi e facili battute: preceduta da due sidecars s’avanza una possente autoblindo; poi cinque o sei camion carichi di soldati della Wehrmacht: si dirigono verso la caserma. Poi altri militari tedeschi sfilano davanti a noi. È la prima volta che vediamo le forze dell’alleato (?) tedesco. Osserviamo e commentiamo: il colore grigio sabbia degli automezzi, le tute mimetiche dei soldati, le machine/pistole, le mitragliere leggere e i nastri dei colpi sulle spalle, gli stivali solidi e funzionali in stridente contrasto con gli scarponcelli e le mollettiere dei nostri soldati, gli elmetti con l’emblema del loro reggimento (un edelweiss).
Lucio Mansi, Basiglio, Milano
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