Enrico Mannucci, Sette 13/9/2013, 13 settembre 2013
L’UOMO CHE SCONFISSE GLI INGLESI SUL FILO DI LANA
Ci dev’essere una misteriosa ragione per cui le lane e le stoffe più pregiate – quelle che poi andranno addosso alle persone più influenti e anche abbienti del pianeta – vengono lavorate in aree depresse (o, almeno, depresse fino al momento in cui queste produzioni entrano a regime e raggiungono il successo). Capita così nelle Highlands scozzesi, che non sono certo un territorio trasudante ricchezza, lo stesso è successo da noi, in Italia. Dove l’eccellenza nel settore è inesorabilmente legata alla zona del Biellese e della Valsesia: terre che, quando apparvero gli embrioni di quest’attività, potevano solo essere definite come «una regione collinare povera, priva di risorse agricole e di materie prime». Terre buone per la pastorizia, coi pastori che smerciavano le eccedenze di quel che traevano dalle loro lane. Certo, l’ambiente naturale, da questo punto di vista, offriva qualche vantaggio: le lane si lavavano e tingevano grazie alla quantità e alla purezza delle acque, il legname abbondante permetteva di costruire l’attrezzatura tessile, da castagni e noci si ricavavano ingredienti per la tintura delle lane e per l’oliatura delle fibre prima della filatura. Senza contare la posizione strategicamente propizia: vicino alla strada dei mercanti lombardi che andavano oltralpe. Non sono fattori da poco, basta ricordare una frase di Fernand Braudel, l’insigne storico francese della scuola degli Annales: «Il Rinascimento italiano? Ma è la lana». Uno storico italiano, Mario Sodano, autore di uno studio specifico intitolato Degli antichi lanifici biellesi e piemontesi, descrive così i protagonisti di questa embrionale rivoluzione industriale: «L’antico lanaiolo biellese era o pastore che faceva lavorare le sue lane per trarne beneficio maggiore, oppure mercante di panni che comprava le lane e le sottoponeva alle lavorazioni smerciandone poi le stoffe».
Insomma, era davvero arduo prevedere che da quelle parti sarebbero nati gli abiti e i tessuti che hanno accompagnato la riscoperta del buon gusto e della “bella vita”, dagli Anni Ottanta a oggi (beninteso, con qualche trauma e qualche pausa brusca). Che venga da qui uno dei massimi simboli italiani del lusso (dove “lusso” va inteso non come ostentazione pacchiana ma nell’accezione di James Hillman: «La natura del lusso deriva dal lusso della natura… Poiché il primo significato della parola “lusso” è botanico, non dovrebbe meravigliare che ancora oggi, con tutti i progressi dei materiali sintetici, il “lusso” continui a invocare fibre naturali: il cotone, il lino, la seta, la lana».
Una trama di estetica e tecnica. E lana di lusso comincia presto a produrre lo stabilimento creato, alla fine dell’Ottocento, da Angelo Zegna, un versatile orologiaio di Trivero – un paese sulle Alpi biellesi – che ha deciso di misurarsi con altri macchinari, aprendo un lanificio. Angelo ha dieci figli, all’ultimo, Ermenegildo, affida l’impresa. Ermenegildo crea, nel 1910, la vera e propria azienda, col nome di Lanificio Zegna e una missione precisa: fare i tessuti “più belli del mondo”.
Estetica e tecnica si intrecciano. Bisogna fare un passo indietro, cento anni prima. Per secoli, le manifatture biellesi sono rimaste più o meno identiche, coi medesimi sistemi di rifinitura, follatura e tintura. La rivoluzione industriale, quella planetaria che parte dall’Inghilterra, è un terremoto, con la meccanizzazione della filatura. I produttori di Biella e dintorni rischiano il tracollo a più riprese. Se la cavano una prima volta quando, nel 1917, un lanaiolo lungimirante, Pietro Sella, importa dal Belgio il W. Crockerill, una macchina per la lavorazione della lana, e crea la prima industria tessile vera e propria. Altri problemi vengono dall’evoluzione delle fonti energetiche che inducono una migrazione delle fabbriche verso valle e, soprattutto, dalla competizione con prodotti concorrenti nazionali ed esteri.
La quarta generazione. Il debutto della dinastia Zegna coincide con l’introduzione dei primi telai meccanici e prende di petto la questione commerciale.
Il personaggio di Ermenegildo è memorabile e sfaccettato. Infaticabile e duro sul lavoro, innanzitutto con se stesso, creerà una specie di severissimo tribunale per valutare la produzione. Ma il suo orizzonte non si limita alla fabbrica, crea un precursore sistema di welfare per i dipendenti con biblioteca, palestra, sala convegni, scuola materna, piscina e centro medico; in più, attento ai monti e ai boschi della sua terra, vara il progetto della Panoramica Zegna, una strada di 14 chilometri, a 1.500 metri di altezza, che collega Trivero alla stazione sciistica di Bielmonte. Con la scusa di un malessere, evita di presenziare a una visita di Mussolini in azienda, ma cavalca la vena “antialbionica” del regime quando si tratta di competere coi lanieri britannici: lancia la prima campagna pubblicitaria dell’Italietta, tappezzando le carrozze ferroviarie di prima, seconda e terza classe con un’immagine da manifesto politico, un pugnale foderato di tessuto Zegna che spezza la catena del dominio inglese. E, intanto, adotta una strategia di respiro internazionale: cerca le fibre naturali della migliore qualità nei Paesi d’origine, comincia a esportare in America fin dal 1938, alla fine della guerra i tessuti Zegna sono venduti in più di quaranta Paesi.
Angelo e Aldo, i figli di Ermenegildo, rappresentano la terza generazione Zegna e, dagli Anni 60, prendono gradualmente in mano la gestione dell’azienda. A loro tocca consolidare il successo: allargano il campo d’azione lanciando le collezioni di prêt-à-porter e su misura, internazionalizzano definitivamente produzione e distribuzione (dopo aver aperto un nuovo stabilimento a Novara) e aprono i primi negozi monomarca a Milano e Parigi. Suzy Menkes – la regina del fashion journalism pilotato per anni dalle colonne dell’International Herald Tribune – illustra così quel periodo: «Zegna allettava la clientela maschile con il lusso nascosto nei tessuti extraleggeri. Anche se il cliente non era in grado di dare una definizione di “18 milmil 18” o della fibra ancor più sottile “17 milmil 17”, quei micron, che si riferiscono alla finezza della lana, furono gli strumenti con cui Zegna si aprì un varco nei guardaroba maschili».
Di nuovo, tecnica ed estetica si intrecciano, e il verbo è perfettamente adeguato, visto che si tratta di individuare le fibre assolutamente migliori. È così che nel 1963 viene istituito l’Ermenegildo Zegna Extrafine Wool Trophy e poi, nel 2002, l’ancor più esigente Ermenegildo Zegna Vellus Aureum Trophy, a premiare l’eccellenza nei velli di lana merino superfine: fibre dove il primato si gioca al microscopio, la più sottile misura 10 micron di diametro, quando un capello è sei volte tanto.
Musicisti, artisti, star dell’architettura… Prolificano le iniziative del gruppo – fatturato, in crescita, oltre 1.200 miliardi di euro, alla guida la quarta generazione con Gildo amministratore delegato, Paolo presidente e Anna direttore immagine – attorno alla corsa per migliorarsi: dal sucido (il vello prima di ogni trattamento) al prodotto finale, con gli ultimi manufatti che portano dentro miracoli della tecnologia: dai tessuti che sanno respingere le macchie alle lane merino termoregolate. Lussi e raffinatezze, senza dimenticare la lontana origine in quelle terre difficili.
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