Giorgio Terruzzi, Sette 13/9/2013, 13 settembre 2013
RITRATTO SEGRETO DI UN FENOMENO SU DUE RUOTE
Gli occhiali come una maschera a specchio, incastonata nel casco. Braccia e spalle protette, gli stivali imbottiti da battaglia. Un guerriero senza espressione, un supereroe da cinematografo. Effetti speciali rilasciati ogni tre metri. Agilità e potenza. Scarti, derapate e voli. Uomo e macchina agganciati per magia. La moto è un cavallo selvaggio, una bestia brutale, domata, magnifica, irraggiungibile. Sassi e polvere, terra e dune. Furore e grazia. Tony Cairoli, in corsa, è una icona moderna e smaltata. Inconfondibile e quasi imbattibile. Sette titoli mondiali. Il primo data 2005; l’ultimo 2013, appena ieri, conquistato in Inghilterra. Sette centri in nove anni. Abbastanza per trasformare il motocross in un vanto solo nostro, l’unico, al momento, date le rogne dell’Italia a motore. Il fatto è che, a cose fatte, abbandonata la sua Ktm in officina, tolta la tuta, via il casco, la maschera da corsa, salta fuori un ragazzino quasi tenero, niente a che vedere con i bicipiti gonfi dell’eroe, macché. Sono semplici i gesti, i tratti, una faccina che vira verso la timidezza, un’espressione da bambino che ha appena finito di giocare. Le schegge colorate del suo fare funambolico ed esatto, lasciano il posto ai segni di una radice più profonda. La campagna di Patti, Sicilia, dove è nato il 23 settembre 1985, la curiosità di un ragazzino attratto da quel mare là, cobalto, e nel contempo distratto dal movimento ossessivo di un pistone. Suo padre, Benedetto, con la passione per la Vespa, la Lambretta e lui che osserva, ci pensa, gli va dietro. Prima moto, ad anni 4. Una Itajet. Numero di telaio: 222. Lo stesso numero che ostenta da allora, sempre, mentre passa in impennata sul traguardo.
Eppure, perlustrando il lungo viaggio felice di Cairoli, si incontrano soprattutto donne. La madre Paola, scomparsa il 9 settembre 2009, alla quale dedica ogni vittoria, verso la quale Tony conserva una gratitudine senza confronti. Poi Antonina, detta Nuccia, Mara e Sara. Tre sorelle che volano al suo fianco, come angeli custodi. Nuccia a fare da chioccia, da riferimento primo; Mara, la più estroversa, la più coinvolta nella passione per le corse; Sara, giovane, moderna e sveglia. Vegliano, custodiscono e curano. Accompagnano e tifano. Soprattutto, ribadiscono punti cardinali e radici. Anche se il cuore di questo fratello fenomeno è in custodia altrove. Lei si chiama Jill Cox, biondissima e olandese, fidanzata da anni quattro, figlia e sorella di crossisti, un salone di bellezza da gestire in Belgio, dove con Cairoli vive buona parte dell’anno. Lommel, il luogo, tutto pioggia e piste. Perfetto per allenarsi a due passi dalla sede della squadra, ma poi basta, per carità. Una casa a Roma, infatti, appena fuori dal centro, dove tirare il fiato circondati da ben altro.
Questione di ritmo. Per diventare un mito del motocross, Cairoli ha impiegato pochissimo, ha impiegato tutta la vita. Una dedizione che non prevede soste, punti deboli, abbinata a un talento sbocciato a razzo. Garette, gare regionali, nazionali e poi un volo più difficile. Debutto nel mondiale a Genk, Belgio, 2002. Prima vittoria a Namur, sempre Belgio, 2004. I primi due Mondiali vinti nell’MX2 e poi il passaggio alla categoria MX1 che sta al motocross come la MotoGP sta al motociclismo. Lui, pronto, sempre. Con uno stile suo soltanto, una duttilità sorprendente, roba che gli altri, tutti, non possono permettersi sempre e comunque. Infatti. E adesso, data una età da sogni in canna, vuole arrivare fino al nono centro, giusto per pareggiare i conti con il suo amico Valentino Rossi, prima di puntare a quota 10, il record assoluto della storia del cross, detenuto dal belga Stefan Everts.
Con Valentino va in moto ogni tanto, d’inverno. Fanno i mattocchi stereofonici con la scusa di un allenamento. In comune hanno una passione che non perde un colpo, una visione essenziale della vita, un pizzico di ironia.
Tony: più chiuso, meno votato alla comunicazione. Più connesso alla sua terra, alla sua storia. In questo senso simile a Fernando Alonso o a Robert Kubica, tutti nati in una periferia profonda, costretti a crescere tra un trasferimento e l’altro, ore e ore di automobili, autostrade, trasferte, con il kart o la moto al traino, pur di raggiungere una pista, il momento in cui sfogare una fame dilatata dai chilometri, da un sacrificio reiterato, dalla voglia di puntare su se stessi, costi quel che costi. Patti come Oviedo, come Cracovia. Estremità dalle quali partire per raggiungere il centro della scena.
È di questo che Tony ha memoria, ha fatto tesoro. Conservando la pazienza per una vita in camper e la gioia del ritorno a casa. Per ritrovare i profumi della propria infanzia, l’odore della cucina, delle verdure appena tagliate; per ripristinare le amicizie dell’adolescenza con le quali condividere il silenzio di una giornata a pesca, oppure una serata cucinando, la sua passione numero due. Pasta, soprattutto. Carbonara, matriciana, piatti, come ripete, «da uomo di terra».
A terra tiene i piedi, del resto, il che non è cosa da poco per uno che vola in pianta stabile. È il suo segreto: consapevolezza del valore della fatica, l’ingrediente che in questi anni ha prodotto miglioramenti continui, una raffinatezza progressiva per uno sport che pare dominato dall’istinto. Sulla schiena porta un grande tatuaggio: “Velocità Fango e Gloria”. È un motto e un monito al tempo stesso. Ciò che scandisce un ritmo solo suo. Ha già vinto 63 gare iridate, ma puoi scartabellare per giorni, chiacchierare con lui per ore senza trovare una frase fuori posto, l’ombra di una presunzione. A furia di collezionare trofei ha imparato a gestire se stesso, a trattare con sponsor e mezzi di comunicazione, a tenere conto di una tifoseria ormai sterminata. Il resto sono dettagli da migliorare, tattiche da perfezionare, muscoli da allenare. Cova, Tony. Cova un sogno nuovo. Lo fa da sempre. Da quando saltava i pasti pur di fare un piccolo salto con quel motorino lì. Il suo mondo, anche ora che sta in cima al mondo, non è mai cambiato.