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 2013  settembre 13 Venerdì calendario

«DA ALLENATORE HO IMPARATO A SOGNARE. E A NON AVER PAURA DEI SENTIMENTI. COSE CHE ANCHE L’ITALIA DOVREBBE FARE»

[Cesare Prandelli]
Tre anni fa, nel salotto di Orzinuovi (Brescia), la prima intervista come commissario tecnico. Tre anni dopo, nel giardino sulle colline di Firenze: la famiglia è in trasloco, e il cagnolino è agitato. Cesare, che conosco dai tempi della scuola, sembra invece tranquillo. È diventato nonno, c’è una nuova donna nella sua vita e le cose, professionalmente, si sono messe bene. Nel 2010 ha preso una Nazionale liquefatta in Sudafrica e l’ha portata al secondo posto agli Europei 2012 e al terzo posto nella Confederations Cup 2013 in Brasile, l’antipasto dei Mondiali 2014. Le due medaglie, argento e bronzo, pendono al collo di un busto classico, all’ingresso della cucina. Novella, bionda e toscana, traffica con gli estratti di verdura; Bonaccorso detto Tappo gioca con l’iPad e finge di non ascoltare. C’è un sole azzurro di fine estate, e mi viene in mente una canzone di Renzo Zenobi, roba dei nostri tempi: «La Toscana ha vinto, ha già rubato / i tuoi occhi ai suoi colori». Non la canto perché non so cantare; non la cito perché sospetto che finiremmo per parlare di com’eravamo, e non va bene. Prandelli, come certi eroi western e molti bresciani, è un impasto di dolcezza e durezza. Teme una e l’altra, e tra una e l’altra continua a correre, come un atleta che si allena.
Partiamo così: i tre momenti più emozionanti alla guida degli azzurri.
«A Rizzoconi in Calabria con don Ciotti, quando siamo arrivati a questo campettino piccolino per fare l’allenamento con tutta la gente attorno. A quindici chilometri da Auschwitz, quando in pullman, con la squadra, c’è stato un silenzio come se ci preparassimo a qualcosa di intimo e profondo. Al Quirinale, quando siamo tornati dagli Europei, e il presidente Napolitano era felice come un ragazzo. Ci metto anche il recente incontro con Papa Francesco, insieme agli argentini che facevano un casino fantastico».
Neanche un momento sportivo?
«Quelli ormai sono nella storia o nella memoria di tutti noi. Non so, se proprio vuoi posso dirti dell’abbraccio con mio figlio Nicolò quando siamo andati in finale agli Europei. C’è una fotografia. Tutte le volte che la guardo provo la stessa emozione».
La soddisfazione professionale più grande?
«Penso la vittoria con la Germania agli Europei. Oppure la partita con la Spagna nella Confederations Cup. I giornalisti mondiali mi hanno chiesto come avevamo fatto noi, Italia, a costringere gli avversari a giocare di rimessa per tutto il secondo tempo: non era mai successo, nella storia recente della Spagna».
Cosa ricordi di quella partita?
«La strategia. Abbiamo pensato una tattica, l’abbiamo proposta ai giocatori, siamo andati in campo, abbiamo lavorato, e l’abbiamo fatto. Vuol dire che c’è sintonia, c’è sinergia, c’è fiducia. Cosa può chiedere di più un allenatore?».
Dopo il Mondiale in Brasile lasci la guida della Nazionale, o dipende dal risultato?
«Non siamo ancora qualificati per i Mondiali. Voglio arrivare preparato mentalmente, non voglio nessun tipo di disturbo. Al momento opportuno daremo l’ufficialità: continuare o andare in un club. Certo, come ho già detto, mi manca il lavoro quotidiano. Vorrei parlare in maniera trasparente: nel momento in cui incontrerò il presidente Abete, domani o fra due mesi, decideremo».
Hai conosciuto giocatori che non tengono alla Nazionale?
«No. I giocatori amano talmente la Nazionale che vorrebbero venirci sempre».
Sei considerato un domatore di caratteri difficili. Il caso più noto è Balotelli: l’impressione è che sia maturato, e tu abbia avuto una parte in questo. Ha appena ottenuto la copertina di Sports Illustrated. Cos’ha, questo ragazzo, che colpisce tanto la fantasia del pubblico?
«Soprattutto quella dei ragazzini. E sai perché? Perché loro sono già nel futuro. Vedono il cambiamento. Mario fa due gol alla Germania agli Europei, si toglie la maglia, mostra i muscoli. Per la prima volta nella storia della Nazionale italiana, un ragazzo di colore fa vincere l’Italia contro la Germania: lì c’è tutto. C’è tutto. I ragazzi lo hanno capito».
Noi adulti stiamo qui ancora a discutere di “nuovi italiani” e loro lo danno per scontato: questo vuoi dire?
«Esatto, i ragazzi sono già avanti. Mario è un grande personaggio non solo perché ha fatto sognare, ma perché è il protagonista del momento storico. Quando giriamo, abbiamo campioni come Buffon, Pirlo, De Rossi ecc, che sono straordinari, ma poi scende lui... Allegri e io, i suoi allenatori, siamo convinti che possa fare ancora di più. Spesso gli rimproveriamo che il personaggio soffoca un po’ il calciatore. Dovrebbe essere il contrario».
Balotelli segue le istruzioni? O in campo fa quel che vuole?
«No, guarda, nel calcio ormai non può esserci più il giocatore che fa quello che vuole in campo. C’è una squadra organizzata, tutti devono sapere cosa fare. Anche lui, che è il terminale offensivo. Io, l’allenatore, riesco a proporti un calcio che ti porta all’area di rigore, poi nell’area di rigore te che sei bravo fammi vedere che sei bravo. Però fino a lì la squadra deve avere un’idea, un gioco, una filosofia, deve avere movimenti, anche per distribuire gli sforzi, perché altrimenti certa gente corre il doppio rispetto ad altra».
Balotelli è tra i cinque calciatori più talentuosi che ti è capitato di allenare?
«Io lo dicevo tre anni fa, e molti mi hanno spernacchiato. Sono sempre più convinto che potenzialmente è nei primi cinque al mondo. Tieni presente che ha compiuto da poco 23 anni, ha già avuto esperienze internazionali, esperienze importanti. È un vincente perché vuole vincere. Dipende da lui. Dipende da lui togliersi un po’ di cose che l’hanno accompagnato in questi anni, qualche atteggiamento, qualche reazione scomposta. Lui deve esser forte dentro, non ha bisogno di esteriorità».
Non ti dà fastidio che in Italia, ma immagino anche in altri Paesi, il pubblico passi dal disinteresse per la Nazionale all’amore furioso durante Europei e Mondiali?
«Io dico sempre: “Non gliene frega niente a nessuno, e poi arriva l’evento”. La cosa fa un po’ sorridere, ma è anche vero che i dati di ascolto sono sempre alti. Vuol dire che il prodotto Italia sta funzionando, calcisticamente».
Nei prossimi mesi la Nazionale dovrà contribuire a tenere su il morale di un Paese demoralizzato. Ti preoccupa?
(ride) «Se fai bene allora sono tutti contenti, euforici e si sentono coinvolti. Se fai male è il momento che hanno bisogno di qualcuno per sfogarsi. Giusto così».
Siete pronti per vincere?
«Ecco il punto! Prendi la finale degli Europei. Avevamo fatto un cammino superiore a ogni aspettativa, e siamo arrivati in finale. Inconsciamente, ritenevamo di avere già ottenuto qualcosa di straordinario. E, quindi, non eravamo pronti a vincere. Non abbiamo programmato anche la finale, per esempio. Dopo la semifinale, dovevamo ripartire subito per Kiev; invece siamo tornati in Polonia, abbiamo fatto quattro viaggi in più, abbiamo perso un giorno d’allenamento eccetera. Magari avremmo perso lo stesso».
E poi la Confederations Cup. Eri già stato in Brasile?
«Non, non ero mai stato in Brasile, devo dire che è qualcosa che va oltre. Abbiamo vissuto in diretta gli scontri e le proteste. Quando una nazione, dopo venticinque anni in cui ha accettato qualsiasi cosa, va in piazza, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Il mondo del calcio stride troppo con il mondo sociale. Cioè, tu non puoi ristrutturare un Maracanà e spendere quello che hai speso, di fronte alle favelas...».
Sei andato nelle favelas?
«No, non siamo andati nelle favelas, anche perché quando sono iniziate le manifestazioni ci hanno blindati negli alberghi. Ma non è un problema solo brasiliano. È un problema che sarà presto in Europa, vicino a noi, perché c’è in giro troppa differenza. Anche le persone che stanno bene non potranno mai star bene se il vicino ha questi disagi».
In una bella intervista con Luigi Garlando della Gazzetta hai detto: non bisogna aver paura della tenerezza. Ma nel calcio dei tatuaggi e dei muscoli e dei risultati c’è spazio per la tenerezza?
«Ne parlo ogni tanto coi miei giocatori. A volte il calciatore vuole dare un’immagine da uomo duro che non ha problemi, e se ne ha li risolve in maniera decisa. Io dico invece che non dobbiamo aver paura dei nostri sentimenti. Debolezza, fragilità e tenerezza fanno parte di noi. Non possiamo sempre tenerci l’abito che ci hanno appiccicato addosso».
Sei stato a lungo un calciatore. I giocatori, come persone, sono cambiati?
«Rispetto a trent’anni fa è cambiato il mondo. Faccio un esempio: i giornalisti entravano nello spogliatoio, c’era un rapporto non solo di conoscenza, ma anche fisico, ci si scambiava la battuta, poi uno faceva la domanda a uno, a quell’altro, ecc. Adesso i nostri due mondi non si incontrano più. Non si incontrano più ma lavorano insieme: è un paradosso».
E coi tifosi?
«Raccomando sempre ai giocatori di essere disponibili. Certo non puoi farlo tutti i giorni. Poi però capita questo: a Roma c’erano cinquecento persone, i ragazzi della Nazionale si sono fermati venti minuti ogni volta, autografi mattino, pomeriggio e sera, per tre giorni. Il quarto giorno una signora non è riuscita a fare la fotografia e ci ha insultato. Per i media, vale quella. Allora, non lo so».
Devi leggere Azzurro tenebra di Giovanni Arpino. Racconta la spedizione italiana ai Mondiali di Germania 1974, vista da dentro: uno dei più bei libri di sport che io abbia letto. C’è oggi un modo di raccontare il calcio cui noi, giornalisti e scrittori, non abbiamo pensato?
«Ci sono tanti modi di raccontare il calcio. Mi piace il calcio emoziato ed emozionante, perché ormai il risultato, lo sbaglio, il passaggio, l’abbiamo visto e rivisto. Dopo mezz’ora è già vecchio. Mi piace l’approfondimento fatto in maniera non seriosa. E magari costruttiva. Ma purtroppo il calcio in Italia è un calcio tendenzialmente polemico».
Anche perché legato al tifo.
«Sì, ma è vecchio. È una cosa ormai vecchia. Cioè secondo me le altre nazioni sono avanti, sono avanti. Anche nella gestione del dopo-gara, del pre-gara, dei commenti. Guarda gli stadi, all’estero. Festeggiano, si alzano, applaudono. Hanno preso il gol? Applaudono, via si ricomincia. Mi piacerebbe chiudere gli occhi e vedere gli stadi con ragazzi giovani, famiglie che si divertono e ventidue ragazzi in campo che lottano con rispetto per vedere chi è più bravo. Invece da noi, se perdi una partita, ti lanciano i sassi, ti aspettano fuori. Hai capito? Siamo vecchi, queste cose non ci sono più da nessuna parte. Basta, basta. Questo calcio qui basta».
Così deluso?
«Certo! Tante volte non c’è neanche la gioia quando vinci, perché c’è comunque la polemica, perché se fai due a zero devi fare tre a zero, quello doveva prendere il gol questo doveva essere... Non siamo mai contenti! C’è solo il desiderio di polemizzare, di essere cattivo, ma a che scopo? Vendere? Tanto i giornali non li vendi più di tanto».
Lo sappiamo...
«E allora io dico: ma perché questa cattiveria? Perché? Per quello io dico che gli altri sono avanti, sono avanti».
Gli azzurri della Nazionale sono consapevoli di essere degli esempi, e di avere responsabilità? Oppure alcuni di loro sono troppo giovani per capirlo?
«Bisogna ricordarglielo. Bisogna continuare a farlo. Loro sono dei riferimenti. Se uno indossa la maglia della Nazionale, deve meritarsela. Se uno sputa, se uno si rifiuta di andare a ritirare una medaglia, se uno tira una gomitata, per me in quel momento non lo merita».
Ma se uno dei tuoi giocatori importanti fa una scemenza e tu sei obbligato a tenerlo fuori? Ai Mondiali?
«Sono convinto che due mesi prima dagli eventuali Mondiali nessuno si permetterà».
Un giocatore che ti ha dato tanto.
«Ho sempre convocato Giaccherini, è un giocatore che nella Juve non è mai stato titolare. Ma per un allenatore è una gioia averlo. Perché è sempre positivo, è generoso in campo, qualsiasi cosa la fa con entusiasmo. E poi ha il calcio nella testa. È arrivato un po’ tardi ai grandi livelli, quindi apprezza tutto. Ci ha messo determinazione, ci ha messo tenacia, ci ha messo sacrificio. Spesso i calciatori arrivano troppo presto, e si perdono».
C’è qualcosa che i tifosi della Nazionale possono fare o non fare, per aiutare la Nazionale? Mi spiego meglio. Prendi l’Inghilterra. Ogni volta viene caricata di aspettative spaventose dai media e dall’opinione pubblica, e poi regolarmente crolla.
«Non continuare a ripetere che la Nazionale italiana gioca bene solo se deve riscattarsi. Riscatto di cosa? Non ho bisogno che mi dicano che sono un ladro per giocare bene. Non ho bisogno che mi dicano che non ho morale per giocare bene. Non ho bisogno che mi dicano che non ho sentimento per giocare bene. Non mi devono dire questo».
Ci siamo conosciuti da ragazzi, tu giocavi negli Allievi della Cremonese. Hai mai pensato, magari per un attimo, di diventare l’allenatore della Nazionale? Fin dove arrivavano i tuoi sogni?
«Da piccolino, quando giocavo da solo in cortile, mi immedesimavo nei campioni, sognavo grandi stadi, facevo gol e immaginavo di alzare una coppa... Poi sono diventato professionista, e non ho mai fatto grandi sogni. Ho sempre cercato di mantenere quello che avevo. È da allenatore che ho imparato a sognare».
Un consiglio ai tuoi tifosi e connazionali, alla vigilia di una stagione non facile per il nostro Paese?
«Lo stesso: imparare a sognare. In Italia sogniamo poco e male».
Beppe Severgnini