Alberto Dentice, l’Espresso 13/9/2013, 13 settembre 2013
BOLLANI BRASILEIRO
Stefano Bollani? Sì certo, ma quale? L’impressione, vista la proliferazione incontrollata dovuta al suo talento multiforme, è che non ce ne sia uno solo. C’è il pianista jazz, certo. Ma poi c’è l’interprete classico di Ravel e Gershwin scoperto da Riccardo Chailly. C’è lo scrittore di romanzi ("La sindrome di Brontolo") e saggi ("Parliamo di musica"). C’è il funambolo del cazzeggio lanciato dal "Dottor Djembé" su Radiotre. C’è il divulgatore televisivo di cose di musica nel programma "Sostiene Bollani", gran successo su Raitre un paio d’anni fa di cui si sta preparando il ritorno. E c’è almeno un altro Bollani, forse meno conosciuto, l’esploratore innamorato del Brasile e dei suoi musicisti. Quel Bollani, appunto che insieme a Hamilton de Holanda, virtuoso del bandolim (il mandolino a dieci corde tipico del folclore brasiliano) ha realizzato per l’Ecm l’album "E que serà". Un disco che celebra non tanto due virtuosi degli strumenti, quanto due artisti che nell’improvvisazione trovano la forma di espressione ideale, colti in un momento di grazia e di divertimento. Tra i due le affinità sono molte. Come Bollani anche De Holanda ha manifestato fin dalla tenera età un talento spiccato. Nato a Rio de Janeiro nel 1976, cresciuto a Brasilia, ha iniziato a suonare il mandolino a cinque anni e dagli anni Novanta si muove con disinvoltura tra il mondo tradizionale del "choro" e quello del jazz, aperto alle sperimentazioni più ardite realizzate anche in dischi e tour con artisti del calibro di Mike Marshall, Richard Galliano e Béla Flek.
Com’è avvenuto il vostro incontro?
«Direi quasi per caso, sul palco del Festival di Bolzano nel 2009. In quel concerto avevamo suonato insieme solo due pezzi. Ma l’intesa fra noi è stata così sorprendente da lasciarci la voglia di continuare. Hamilton non è il classico virtuoso, ma un musicista completo. Adoro la musica brasiliana, ma la cosa più difficile da trovare laggiù è il gusto dell’improvvisazione. Forse la loro è una musica talmente variegata che non sentono la necessità di sviluppare quest’arte. Hamilton invece è un grandissimo improvvisatore, un musicista atipico nel panorama brasiliano».
Nel libro "Parliamo di musica" lei scrive che lo spirito con il quale sale sul palco le impone di fare ogni sera una cosa diversa e che da tempo nel Trio con Jasper Bodilsen e Morten Lund non decidete nemmeno la scaletta.
«Assumersi dei rischi è il bello del jazz. Anche nel concerto di Anversa che abbiamo scelto di pubblicare con Hamilton avevamo deciso solo il primo brano. Certo suoniamo anche diversi standard come "O que serà" di Chico Buarque, "Oblivion" di Piazzolla, "Rosa" di Pixinguinha, ma gli arrangiamenti sono quelli nati al momento. C’è un solo pezzo di Hamilton, "Caprichos de Espanha", che è scritto su pentagramma. Ma per il resto, bando alla routine!».
Fra i titoli del nuovo disco c’è anche "Guarda che luna", dove a un certo punto parte un’esilarante parodia di Paolo Conte.
«Di solito non faccio il cretino quando suono con Hamilton. Ma la sera precedente Conte aveva suonato allo stesso festival. Nella hall dell’albergo avevo incontrato i suoi musicisti. Così mi è venuto spontaneo tirar fuori quella sua voce inconfondibile e i suoi "za-zara-zza". Ecco spiegato perché si sente il pubblico di Anversa che ride a crepapelle: lo avevano visto la sera prima».
La serata era stata trasmessa dalla Radio belga, quando avete deciso di pubblicarla?
«Con Hamilton non sapevamo ancora se andare in studio o proporre un "live". Quando abbiamo riascoltato la registrazione, ci è piaciuta molto. Andare in studio avrebbe voluto fare almeno due o tre versioni di ogni brano, cesellarle, eliminare gli errori, dargli un vestito buono, ma abbiamo preferito tenerci la spontaneità e la freschezza che viene fuori dal concerto».
Come nasce il suo amore per la musica brasiliana?
«La musica brasiliana ha cannibalizzato ogni cultura con cui è venuta a contatto, come ha spiegato negli anni Venti De Andrade nel suo "Manifesto antropofago". Il ritmo viene dall’Africa, l’armonia è la nostra, il sentimento è lo stesso delle popolazioni del Mediterraneo che vivono davanti al mare, da Lisbona a Napoli. Sono tutte cose che l’orecchio occidentale riconosce e che piacciono molto ai jazzisti».
Un esempio?
«Nel 2006, quando sono stato in Brasile per registrare l’album "Carioca", ho scoperto il choro: una musica di origine popolare lanciata da Pixinguinha negli anni Trenta e amatissima anche da Darius Milhaud, che utilizza gli stessi elementi strutturali e armonici del ragtime. Quando l’ho ascoltato ho capito che si trattava di ragtime con un elemento ritmico atipico totalmente diverso e unico».
Il 29 settembre partirà la nuova serie di "Sostiene Bollani": la televisione non rischia di diventare un lavoro vero?
«Ho preso una pausa di oltre un anno per poter fare questo lavoro divertendomi, sebbene si tratti di qualcosa di ben più faticoso che fare un tour. Il principio del programma è lo stesso: giocare in diretta con la musica. Fare da padrone di casa per musicisti di diversa estrazione che verranno a trovarmi».
In televisione ha rivelato una insospettabile vocazione didattica, da musicologo.
«Il trucco, nemmeno troppo segreto, è parlare solo delle cose che ti piacciono, anche in trasmissione. Parlo di argomenti che decido io con ospiti scelti da me. Questo privilegio fa si che poi trasmetta gioia e divertimento nel raccontare le cose».
Novità della nuova edizione?
«Questa volta la scommessa è più ardita, perché sarò senza la valletta Caterina Guzzanti. In scena soltanto il sottoscritto e un pianoforte e gli ospiti che ruotano intorno».
I fan di Lapo, il camionista, e di tutti gli altri personaggi creati da lei con Davide Riondino sognano il ritorno del "Dottor Djembé" su Radiotre.
«Per quest’anno non se ne parla. Troppi impegni. Ma il mio gruppo di collaboratori è sempre presente: due degli autori di "Sostiene Bollani", Rosaria Parretti e Fosco D’Amelio, sono gli stessi del dottor Djembé. Poi c’è Mirko Guerrini, amico dei tempi della scuola. E naturalmente Riondino con il quale si continua a scambiarci idee e affetto. Può darsi che il programma riprenda presto, forse sotto un’altra sigla».
Nel frattempo, è già pronto un nuovo disco?
«Sì, un disco di mie composizioni inedite, sempre per la Ecm. Questa volta oltre a Boldisen e Lund ci sono anche Mark Turner al sax e Bill Frisell chitarrista che da anni sognavo di coinvolgere. Finalmente ci sono riuscito».
Se non andiamo errati è il sesto album per la Ecm, l’etichetta di Manfred Eicher, qual è il segreto di questo produttore avvolto da un’aura di leggenda?
«Manfred è uno dei pochissimi produttori di jazz degni di questo nome, uno che lavora davvero per tirare fuori il meglio dai musicisti. Con una cura maniacale dei dettagli e un’attenzione al suono quasi mistica. La sua purtroppo è una specie in via di estinzione, anche perché i dischi hanno ormai i giorni contati».
Anche quest’anno con i suoi quasi 300 concerti ha battuto ogni record fra i musicisti di jazz. Vuole entrare nel Guinnes?
«Giuro che dopo il programma mi prendo un periodo di pausa. Vorrei fare anche altre cose quindi ho bisogno di tempo».
Dal jazz alla classica lei sembra determinato a esplorare l’universo musicale a 360 gradi, filo conduttore sempre e solo il divertimento.
«La risposta è molto semplice. Suono per divertirmi fin da quando ero bambino, poi è diventato un lavoro, perché pensavo fosse uno dei modi migliori per passare la giornata. Naturalmente continuo a studiare e a cercare di migliorarmi. Ma anche dal pubblico mi piace di più sentirmi dire che si è divertito piuttosto che "quanto sei bravo"».