Wlodek Goldkorn, l’Espresso 13/9/2013, 13 settembre 2013
PAROLA DI AMOS OZ
È il testo, la parola e non il sangue a determinare chi siamo, perché l’eredità, da padri e madri a figli e figlie, viene trasmessa attraverso la narrazione e non tramite i geni». Siamo tutti un’invenzione letteraria. Lo dicono Amos Oz e Fania Oz-Salzberger. Lui, 74enne, è uno dei romanzieri più grandi e prolifici del mondo, da tempo in odore di Nobel. Lei è sua figlia, di anni ne ha 53 e insegna storia all’Unversità di Haifa. Insieme hanno scritto un libro, "Gli ebrei e le parole", in uscita a ottobre da Feltrinelli, che ha conquistato il plauso di un filosofo rigoroso come Jürgen Habermas e ha incantato uno scrittore fantasioso come Jonathan Safran Foer. «Il titolo non deve trarre in inganno», dicono Amos e Fania, «il nostro non è un libro solo per gli ebrei, ma per tutti coloro che amano leggere». Il saggio, un manifesto della laicità e del buon uso della memoria, è in realtà una serie di storie, storielle, aneddoti, parabole raccontate con ironia, senso dell’umorismo e dove vengono messi in gioco tutti i sentimenti del lettore, come avviene di solito nei romanzi di Amos Oz. «Sono temi di cui stiamo parlando da quando Fania era bambina», dice lui. Lei conferma: «Mi chiede come è scrivere un libro con Amos Oz? Io non ho scritto con Amos Oz, ho messo in pagina le conversazioni con mio papà».
Ma poi, l’uscita del libro è un’occasione per parlare con "l’Espresso" non solo dell’identità ebraica ma di temi che riguardano il nostro essere umani: del significato e dell’uso della parola, dell’importanza di interpretazione contro le verità sacre («Nell’ebraismo contano le domande, non le risposte; a differenza forse del cattolicesimo») e del perché come diceva Bernard Malamud, grande scrittore newyorkese, tutti gli uomini sono un po’ ebrei. Per Amos e Fania infatti l’ebraismo è una metafora della condizione umana: quello che sta loro a cuore è uscire dai ghetti dell’appartenenza, smontare la mentalità che porta ai fanatismi, e combattere l’ossessione identitaria che si sta diffondendo come un’epidemia su scala globale; Israele compreso. «Qui in Israele dicono che se non frequenti la sinagoga non sei un buon ebreo. Noi invece pensiamo di essere dei buoni ebrei senza andare in sinagoga», dice Amos Oz.
Ossessione identitaria? Nella sua casa a Tel Aviv, metropoli cosmopolita e tollerante opposta alla Gerusalemme bigotta e integralista, Oz spiega la differenza tra identità e appartenenza. «L’appartenenza è data. Sei uomo o donna; bianco o nero. Quindi è poco interessante. L’identità invece è materia di grande fascino per uno scrittore, per una storica, ma anche per chiunque sia curioso degli umani». Spiega: «L’identità ciascuno se la sceglie come vuole. Significa autodeterminazione: puoi essere socialista, fascista, nazionalista, vegetariano». Aggiunge: «Ma la cosa più importante e che fa capire quanto noi umani possiamo essere liberi perché dotati di immaginazione, è che tutti abbiamo più identità. Si è nel contempo padri, figli, nonni, mariti, amanti, tifosi di una squadra di calcio, patrioti locali e via elencando». Esiste però una gerarchia di queste identità? «Sì», è la risposta, «sta nell’ordine con cui la persona declina le proprie molteplici identità. Però succede spesso, e a tutti, che le varie identità entrino in conflitto tra di loro; quindi la gerarchia non può mai essere fissa e definitiva, come invece vorrebbero i fondamentalisti». Ecco spiegata la materia di cui sono fatti i sogni, ma pure i grandi romanzi e la vita vera. Amos e Fania chiosano: «L’identità è un’invenzione. Come del resto la tradizione».
Ma se gli ebrei sono «un collettivo nato da testi e non dalla genetica», è inevitabile chiedere: chi, allora, non è ebreo? Risponde Amos: «Rovescio la domanda. E rispondo che è ebreo chiunque voglia esserlo». E lo scrittore noto per la sua ironia (la considera un potente antidoto contro i fanatismi) aggiunge: «Chiunque sia sufficientemente folle per essere ebreo è ebreo. E se è un buon ebreo o un cattivo ebreo, lo decide il vicino di casa, ebreo pure lui». Forse nella sua generosità Oz allarga troppo il campo. Tra le caratteristiche attribuite agli ebrei, soprattutto quelli creativi - scrittori, artisti, architetti, cineasti (e basti pensare a Woody Allen) - c’è una certa capacità di raccontare personaggi nevrotici. Vale anche per Oz. Nel suo capolavoro "Michael Mio", in apparenza non succede niente; in realtà avviene un lento terremoto nella psiche della protagonista, una giovane donna di Gerusalemme. Oz, insomma scrive un po’ come Cechov («Mi piace il paragone, non so se piacerebbe a Cechov», interrompe lui). Ma allora anche Cechov era uno scrittore ebreo? La risposta: «Noi diciamo nel nostro libro una cosa drastica e di conseguenze incalcolabili: chiunque legge dei libri è un po’ ebreo. Lo è chiunque abbia un rapporto intimo col testo».
Da ragazzo, all’epoca aveva 15 anni, Amos si ribellò alla famiglia del padre, tutta libri, discorsi sofisticati e dotti. Cambiò cognome dal tedesco Klausner in Oz, che in ebraico significa forza, e andò via da Gerusalemme a vivere in un kibbutz. Voleva fare l’agricoltore: piedi nudi che toccano la terra. Desiderava essere un pioniere sionista e laburista, contadino e combattente, un ebreo nuovo che disprezza i confratelli diasporici "privi di radici e sospesi nell’aria" come sono raffigurati gli ebrei in certi quadri di Chagall. Ora sembra aver cambiato idea: «Il Novecento non è stato il secolo degli agricoltori e dei soldati. È stato invece il secolo degli intellettuali, dei commercianti, dei mediatori. Da questo punto di vista è stato il secolo degli ebrei». Quando sente l’obiezione che il suo può sembrare un discorso antisionista, sorride e spiega: «Il sionismo ha dato un’interpretazione troppo angusta della parola "ebreo"». Interviene Fania: «Il nostro è un libro scritto contro i fondamentalisti religiosi, ma anche contro i post-sionisti che sostengono l’inesistenza del popolo ebraico». Precisa Amos: «Certo, oggi in Israele è rinato l’ebreo universale, diasporico. Però l’ebreo israeliano parla l’ebraico e quindi ha un rapporto diretto con il testo originale, quello di tremila anni fa. La differenza tra diaspora e Israele sta nel sapere l’ebraico o non saperlo. Ed è importante».
Quando si riferisce al testo originale, Oz ha in mente la Bibbia. In "Gli ebrei e la parola" se ne parla molto; perché è la madre di tutti i testi. Ma la si tratta come materia letteraria, alla stregua di Cervantes o Dostoevskij (geniale la parte dove i due provano che il "Cantico dei cantici" è un poema erotico scritto da una donna per Salomone e non un inno a Dio scritto da Salomone). Fania ha l’urgenza di sottolineare l’attualità, anche formale della Bibbia: «Veniva scolpita sulle tavolette; oggi la possiamo leggere su un tablet. Ecco, da tablet a tablet il cerchio è chiuso». Aggiunge: «Comunque per noi la narrazione, anche delle cose immaginarie, è più importante di ogni scoperta archeologica sulle imprese di re Davide o sul Tempio di Salomone». «C’è più verità storica nei romanzi che nelle pietre», chiosa Amos. Lo scrittore insiste sull’importanza universale della lingua ebraica rinata alla fine dell’800: «La civiltà mondiale è come una sinfonia suonata da centinaia di strumenti. Se uno di questi scompare, è una catastrofe per tutti. Quando invece uno strumento scomparso viene reinventato ci guadagna l’umanità intera». Ma, «la cosa più importante, al di là della lingua adoperata, sono le parole. È la parola che dà significato alla nostra vita e ai nostri sensi: al nostro sguardo, udito, tocco. Solo sapendo il nome della cosa, sappiamo cosa stiamo guardando, ascoltando, toccando». Prosegue citando l’inizio di ogni narrazione ebraica, il Genesi: «Adamo nel Paradiso dà i nomi a tutte le cose e a tutti gli animali». E non a caso, nella tradizione ebraica si sottolinea che è stato l’uomo e non Dio ad aver dato i nomi: significa autonomia e dignità. E vale per tutti gli umani.
Da decenni Amos Oz è militante della causa pacifista, auspica un accordo coi palestinesi, cerca di provare una certa empatia per la parte avversa. La domanda allora se le parole aiutano a capire l’altro, è inevitabile. Risponde: «Senza le parole non c’è comprensione. E l’empatia è la chiave di ogni rapporto decente tra esseri umani; tra uomo e donna, padre e figlio, israeliani e palestinesi. Ma non sempre le parole sono sufficienti». Alza la voce: «Mi chiede cosa non funziona tra noi e loro, visto che ci stiamo parlando da almeno due decenni? Domanda sbagliata. Da anni sostengo che non ci sono incomprensioni tra noi e i palestinesi. Ci capiamo benissimo. Loro vogliono questo Paese perché non hanno un altro Paese. E anche noi vogliamo questo Paese perché nemmeno noi ne abbiamo un altro. Ambedue abbiamo ragione. Ecco un eccellente livello di comprensione che diventa tragedia».
Ma se il dialogo non sempre funziona, vuol dire che occorre chiedersi qual è il limite dell’interpretazione. Amos Oz risponde con un trattato sulla tolleranza che consiste in due brevi frasi: «Il limite della mia interpretazione è l’interpretazione altrui. Non posso imporre la mia interpretazione a un’altra persona». Troppo facile; e se l’altra persona è fascista o razzista, se pensa che una certa categoria di persone non ha il diritto di vivere sulla terra? È accaduto nella storia e accade oggi. «Con chi dice una cosa del genere non c’è spazio di discussione; c’è guerra. Il razzismo, l’antisemitismo, per chi ne è oggetto o vittima, non è un problema culturale, ma politico-militare», dice. E la memoria per gli ebrei cosa è? La risposta è spiazzante: «Il cibo. In tutte le nostre feste noi diciamo: hanno tentato di sterminarci; non ci sono riusciti, e quindi mettiamoci a mangiare. È la vita, la gioia, la soddisfazione dei bisogni e dei desideri che prevale sulla morte e dà la speranza nonché l’idea di un futuro condiviso tra generazioni».
Si finisce col tornare al significato universale delle parole. Quelle preferite dallo scrittore sono: amore, odio, tolleranza, riso, lacrime, «ma non saprei darne una definizione». Pensa un attimo e chiude così questa conversazione sulle parole, letture e narrazione: «Diceva Sartre che un ingegnere che legge le poesie è un professionista più bravo di un ingegnere che non legge». E un bravo scrittore è colui che cambia la vita del lettore perché pensa che il mondo, compreso il passato e il destino di ciascuno di noi, non è un libro chiuso ma un testo da interpretare, inventare, riscrivere.