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 2013  settembre 13 Venerdì calendario

IL LUNGO ADDIO


Morire sì, ma come? Perché si può morire per dissolversi nel nulla. O morire una volta per risorgere, morire per ritornare, morire per non morire mai, per rendersi eterni. A ben vedere è questo il rovello, il tormento, il dilemma che angoscia Silvio Berlusconi dalle 19.40 di giovedì primo agosto, quando il presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito ha letto la sentenza che lo ha condannato a quattro anni per frode fiscale. Game over, corsa finita, almeno in apparenza. Da quell’istante l’ex pianista di crociere diventato monopolista televisivo, padrone del primo partito italiano e presidente del Consiglio, l’uomo che sognava una terza vita da statista al Quirinale, ha cominciato soltanto a preoccuparsi di come gestire la sua uscita di scena, se morbida o cruenta, differita o accelerata, se come cantava il suo antico compagno di esibizione di fronte al pubblico dei crocieristi Fabrizio De Andrè, « m oriamo per delle idee, va bè, ma di morte lenta, va bè, m a di morte lenta», oppure un crollo epocale che travolga con s é il governo, le larghe intese, la legislatura, le istituzioni, il fondamento della Costituzione repubblicana, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Perché di morte si tratta, spiega crudamente l’ex ministro dell’ultimo governo Berlusconi Saverio Romano: «Gli hanno diagnosticato un brutto male, la fine è già scritta. Silvio sa che deve morire, ma non ha ancora deciso come». Ma perfino la morte, nell’anomalo, abnorme universo berlusconiano, può trasformarsi in un’occasione di rivincita.
Tutte le opzioni erano ancora presenti nel tardo pomeriggio di martedì 10 settembre, a una manciata di minuti dall’inizio della riunione della Giunta del Senato che avrebbe dovuto votare sulle pregiudiziali presentate dal Pdl Andrea Augello, costretto a indossare la toga dell’avvocato difensore di Berlusconi, come e più dei Ghedini vari, di fronte ai colleghi senatori. Si manifestava il Partito della Crisi, agguerrito e ben visibile ai vertici del partito azzurro, da Daniela Santanchè scatenata nel suo road show televisivo a Denis Verdini, sornione e felpato nel backstage a tenere uniti i gruppi parlamentari in vista dello scontro decisivo, più nascosto e impalpabile nel Pd. E il ministro Gaetano Quagliariello, il più vicino a Giorgio Napolitano tra gli esponenti del Pdl, non nascondeva lo sconforto: «La crisi, a questo punto, è sicura». E invece, a un passo dal burrone, il Partito della Stabilità, quel fronte trasversale che va dalle colombe del Pdl a Enrico Letta ai vertici aziendali e familiari di Mediaset, idealmente guidato dal Quirinale (vedi l’incontro riservato tra il capo dello Stato e Fedele Confalonieri), ha ottenuto qualche altra ora di tempo per continuare a lavorare.
I due partiti, quello della Crisi e quello della Stabilità, si confrontano, si fronteggiano, provano a prevalere l’uno sull’altro da molte settimane. Una partita estenuante, che vede i fronti contrapposti rimescolarsi e ribaltarsi di giorno in giorno. Nel Pd, per esempio, fino all’inizio dell’estate il più interessato ad accelerare i tempi di un nuovo giudizio elettorale sembrava decisamente Matteo Renzi: in testa ai sondaggi, poco o nulla interessato a gareggiare per la segreteria del Partito democratico, in sotterranea polemica con il premier Letta, in rotta con il governo sull’affaire Alfano-Kazakistan, quando i renziani sono stati a un passo dal votare una mozione di sfiducia nei confronti del ministro dell’Interno. Ora, dopo la pausa estiva, i ruoli si sono rovesciati. Il sindaco di Firenze si è trasformato in un sostenitore della pax lettiana a Palazzo Chigi. «Non ho detto nulla che possa dare fastidio, vero?», si è informato l’ex rottamatore nel retropalco della festa Pd di Modena dopo aver parlato a una folla di ottomila persone, insolitamente prudente, attento a non guastare il fine settimana di Letta. Il premier, il giorno dopo, a Cernobbio, ha ricambiato la cortesia: «Il Pd è il mio partito, ma resterò lontano dal congresso». Una dichiarazione di neutralità che suona come un via libera per la candidatura Renzi alla segreteria.
E se Matteo viene eletto avrà bisogno di tempo per conquistare il partito e costruire la sua candidatura a premier: voto rimandato. Ma proprio per questa ragione la crisi trova ora numerosi simpatizzanti tra gli anti-renziani, la corrente degli ex Ds divisa tra amici di Pier Luigi Bersani e compagni di Massimo D’Alema. Il più duro nel respingere ogni ipotesi di benevolenza nei confronti del Cavaliere condannato è il morbidissimo (in genere) segretario del Pd Guglielmo Epifani. Toni da super-falco, «nella giunta del Senato si discuta, ma poi si voti, altrimenti è la legge della giungla», copertura totale assicurata a Felice Casson e Stefania Pezzopane, i pasdaran del Pd nell’organismo di Palazzo Madama che vota sulla decadenza di Berlusconi, presa di distanza netta da Luciano Violante che aveva provato a tracciare un sentiero per salvare l’onore del Pd e il seggio senatoriale del Cavaliere, rispedire la pratica sulla costituzionalità della legge Severino alla Consulta e intanto attendere la Corte d’appello di Milano, chiamata a stabilire l’interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi, da uno a tre anni. Evitare l’amaro calice del voto politico al Senato e rimandare ogni decisione agli organi giurisdizionali. Niente da fare, Epifani vuole votare. Ostenta sicurezza di fronte agli elettori infuriati e preoccupati, il Pd non arretra di fronte ai ricatti di Berlusconi, anche a costo di tornare alle urne. Almeno la faccia è salva, né si potrebbe fare altrimenti, con un congresso alle porte, Renzi che spopola nella rossa Emilia e i dirigenti che vengono dal Bottegone che assaporano l’amara sensazione di essere finiti intrappolati in un labirinto di chiara impronta democristiana. Marginalizzati, residuali, a meno che un fatto nuovo non intervenga a riportare tutto in ordine. Una crisi, per esempio.
Ragionamenti che filtrano ad Arcore. Berlusconi teme di finire in mezzo all’ennesima resa dei conti interna al Pd, questa volta nella parte della vittima (in aprile, al momento dell’elezione del presidente della Repubblica, ne fu invece il massimo beneficiario). Il capo dei falchi, altro che Verdini e Santanchè, è lui. Il Partito della Crisi è guidato da Berlusconi. O, almeno, da mezzo Berlusconi: quello degli animal spirits padani, della religione del maggioritario, l’Unto dal popolo sicuro di poter trascinare l’Italia a un nuovo referendum sulla sua persona e di riuscire a vincerlo. L’altra metà dell’ex premier, però, ragiona con la freddezza dell’imprenditore su vantaggi e svantaggi, controindicazioni e opportunità. E il bilancino dei pro e contro consiglia al Cavaliere di tenersi lontano dalla prospettiva della crisi e del voto anticipato, nonostante la voglia enorme di rovesciare il tavolo.
Primo, per come si sono messe le cose la crisi per Berlusconi non è affatto una passeggiata. I numeri a Palazzo Madama indicano che senza il Pdl un eventuale governo Letta-bs potrebbe contare in partenza su 142 senatori. Per arrivare alla maggioranza di 161 ne mancano una ventina, a prima vista tanti, ma se si aggiungono i neo-senatori a vita, quattro ex senatori del Movimento 5 Stelle ora accasati nel gruppo misto, forse i sette senatori di Sel disponibili a sostenere un governo che faccia una nuova legge elettorale, ecco che l’obiettivo diventa realistico. E il gruppo del Pdl, 91 senatori, è tutt’altro che animato da sentimenti di granitica solidarietà con il Cavaliere. La fazione di origine siciliana, vicina ad Angelino Alfano e all’ex presidente del Senato Renato Schifani, si è già espressa per bocca del coordinatore (e sottosegretario) Giuseppe Castiglione: «La crisi di governo va evitata». Può contare almeno su sei senatori. Ma anche i senatori eletti in Campania si sono già iscritti al Partito della Stabilità. Quattro di loro hanno giurato con un comunicato congiunto eterna fedeltà al Cavaliere. Ma c’è poco da stare tranquilli. Uno di loro, il senatore Ciro Falanga, deputato di Forza Italia dal 2001 al 2005, nel marzo 2005 scrisse una lettera aperta a Berlusconi (in quel momento premier): «Per me è inammissibile il cambio di casacca, sarebbe allucinante che tradissi il mandato». Un mese dopo, in mezzo c’era stata la sconfitta del centrodestra alle elezioni regionali, passò con il centrosinistra, tuonando contro «le leggi ad personam, diseducative».
Un altro senatore Pdl di incrollabile coerenza politica è Riccardo Villari: ex Udeur, ex Margherita, ex Pd, ex Api, ora nel Pdl. Per non parlare del Responsabile per eccellenza, l’ormai mitologico Domenico Scilipoti. Lui è dalla parte della durata della legislatura, a prescidendere. «Un governo c’è, deve andare avanti». E il Cavaliere? «La fedeltà è una roba da cani». E Scilipoti cane non è.
Se si scarta la rapida scorciatoia della crisi, dunque, al Cavaliere resta una strada molto più tortuosa, il lungo addio, trasformare il voto della giunta e dell’aula del Senato in un manifesto della sua prossima azione politica. Un Cavaliere extraparlamentare, già visto all’opera qualche giorno fa, quando ha firmato i dodici referendum radicali a braccetto con Marco Pannella, compresi quelli che vorrebbero abrogare alcune leggi approvate dai suoi governi. E soprattutto un Berlusconi che tratta la sua buonauscita, scambia un ritiro morbido dallo scranno parlamentare (che non ha mai occupato con grande entusiasmo) con un nuovo scudo per la sua persona, un lodo più solido di quelli che portavano il nome di Schifani e Alfano bocciati dalla Consulta.
Un lodo tutto politico. L’ex ministro Romano, siciliano che ha superato un’inchiesta che lo collegava alla mafia, lo spiega così: «Berlusconi muore, ma può morire per salvare il governo, morire per salvare il partito, morire per salvare la patria...». Ipotesi più terrena: e se morisse per salvare se stesso, morire per non morire? «Più di ogni altra cosa lui teme le manette. Ha paura di essere privato dell’immunità parlamentare e di essere arrestato da una qualsiasi procura della Repubblica, per esempio quella di Napoli», racconta Romano. «Se esce di scena fragorosamente, come un criminale che non vuole mollare il seggio, l’arresto diventa una cosa praticamente certa. Se invece lascia da statista che ha a cuore il bene del suo Paese il gesto gli sarà riconosciuto: dal presidente Napolitano, dal premier Letta e dagli avversari del Pd».
Un nuovo scudo, tutto politico, distante dai marchingegni infernali ideati dai Ghedini che hanno provocato solo danni. Chiedere qualcosa di più della grazia presidenziale, che resta sul tavolo come ipotesi, ma il riconoscimento dell’onore politico del Cavaliere. Nonostante le condanne e i processi in arrivo. Morire per non mollare. Si può concedere al condannato Berlusconi?