Stefania Maurizi, l’Espresso 13/9/2013, 13 settembre 2013
SOSTIENE PAROLIN
Pietro Parolin? «È da lungo tempo il nostro migliore interlocutore nella politica estera». Ad aver scommesso su di lui da oltre dieci anni è la diplomazia americana, che ha messo nero su bianco questo giudizio. Monsignor Pietro Parolin, appena nominato segretario di Stato della Santa Sede - la carica più importante dopo quella del papa, ricoperta fino a qualche giorno fa dal cardinale Tarcisio Bertone- è uno dei contatti degli Stati Uniti dentro il Vaticano più accessibili, informati e schietti. L’uomo con cui l’America parla quando vuole capire come la Santa Sede la pensa sui dossier più scottanti: dalla Siria alla Cina, da Hamas ad al Qaeda, da aborto e diritti riproduttivi delle donne a Guantanamo e alle torture di Abu Ghraib, in Iraq, ad opera dei soldati americani.
A rivelare la relazione speciale tra monsignor Parolin e la diplomazia Usa sono i cablo rilasciati da WikiLeaks e che "l’Espresso" ha pubblicato in esclusiva per l’Italia. Su 888 documenti che riguardano il Vaticano, ben 124 si occupano di monsignor Parolin, un numero decisamente superiore a quello dei file su Bertone (86) o sullo stesso ministro degli Esteri della Santa Sede, Dominique Mamberti (48 cablo). Parolin batte tutti. E nel segreto delle corrispondenze diplomatiche, gli americani non fanno mistero della grande considerazione che hanno delle sue capacità fin dai tempi della sua nomina a viceministro degli Esteri nel lontano 2002: è «uno che si è dimostrato un vaticanista dalla mente aperta e che è stato formato in modo da essere in grado di assumere incarichi di maggiore responsabilità», Parolin è stato negli Stati Uniti come "visitor" nel 2001, «è stato un buon contatto per l’ambasciata» e «sarà un efficace interlocutore di alto livello per gli Stati Uniti».
In una catena di comando dove c’è una curia «abitualmente opaca», un segretario di Stato come Bertone e un ministro degli Esteri come Mamberti «piuttosto difficili da contattare», Parolin emerge come una figura di riferimento per la diplomazia Usa, anche perché nei loro dispacci gli americani vedono il potentissimo Bertone come uno che «non parla inglese, è piuttosto diretto e abbastanza egotista», mentre Mamberti è un ministro senza grande esperienza, «una nullità» (a cipher), concludono poco diplomaticamente gli americani. Invece, Parolin, è sempre efficiente, disponibile, «ben informato e cautamente schietto».
Bisogna aver letto gli oltre 800 cablo sul Vaticano, per capire la relazione unica tra Stati Uniti e Santa Sede, una città-Stato di neppure mezzo chilometro quadrato, che condiziona la vita di un miliardo e 300 milioni di cattolici in tutto il mondo, schiera 400 mila sacerdoti, 750 mila suore, 75 mila monaci, gestisce 3 milioni di scuole e 5 mila ospedali e ha una rete diplomatica «seconda solo alla nostra», scrivono gli americani nel 2009: «Noi abbiamo rapporti con 188 nazioni e loro con 177».
È di questa formidabile rete di contatti e relazioni che gli Usa vogliono beneficiare, anche perché quello della Chiesa cattolica è un potere capillare, capace di «raggiungere praticamente tutte le nazioni», anche dove l’America non arriva. In Iran, a Cuba o in Cina, per esempio, dove «con il suo network di contatti nelle chiese sia clandestine sia di Stato, la Santa Sede ha eccellenti fonti di informazione su dissidenti, diritti umani, libertà religiosa e sul controllo del governo sulla popolazione». Dal 2002 al 2010, secondo quanto rivela il dababase di WikiLeaks, la diplomazia Usa si confronta continuamente con monsignor Parolin su questi dossier, giocando al grande gioco della diplomazia.
Come quando nel 2005 l’America di Bush punta a far approvare alla "Commissione Onu sullo stato delle donne" un controverso emendamento contro il diritto di aborto. L’ambasciata Usa al Vaticano contatta Parolin «per sollecitare il Vaticano a fare lobbying su alcuni paesi chiave a favore dell’emendamento degli Stati Uniti». Dopo aver espresso la soddisfazione per l’iniziativa, Parolin non scherza nel dispiegare la potenza di fuoco della Santa Sede: agli americani che lo incalzano, annuncia di poter contattare gli ambasciatori di Slovacchia, Repubblica Dominicana, El Salvador, Honduras, Costa Rica, Panama, Nicaragua, Gabon, Guatemala, Paraguay, Filippine, Australia e Cile in modo da fare lobbying a favore dell’iniziativa americana.
Ma se con i diritti delle donne picchia duro, nella gestione dei rapporti con gli Stati, Parolin dimostra di muoversi sempre all’insegna di due parole d’ordine: cautela e dialogo. Che risuonano come un mantra quando, per esempio, si occupa dei problemi del Medio Oriente. Ai diplomatici americani che negli scambi con Parolin demonizzano l’Iran, insistendo che è un paese «inadatto (unfit) ad avere accesso alle armi nucleari», il monsignore risponde sistematicamente: «Non isolate l’Iran, aprite un dialogo» e ricorda che la Santa Sede ha rapporti diplomatici con Teheran da prima che con Washington, tanto che gli americani si chiedono come poter sfruttare quei rapporti per influenzare il regime. «Una condivisione mirata dell’intelligence o della strategia sull’Iran», scrivono, «potrebbe portare a un ulteriore aiuto da parte della Santa Sede su questi temi». Anche con la Siria, la parola d’ordine è la stessa: dialogo. «La Siria è difficilmente un regime ideale - seppure si comporti in modo ragionevolmente buono con i cristiani», dice agli americani nel lontano 2006,«ma c’è un’alternativa al regime?», chiede, insistendo che «sarebbe sventato destabilizzare il regime siriano fino a quando non appare all’orizzonte qualcosa di più stabile per rimpiazzarlo. Serve più dialogo, un tentativo progressivo per migliorare la situazione». Parole che oggi suonano attuali come non mai. Nel confronto con la diplomazia Usa, il monsignore spiega anche che il Vaticano cercherà in ogni modo di tutelare il Libano, «che per la Santa Sede è estremamente importante» non solo per via della sopravvivenza della popolazione cristiana del Paese, ma soprattutto perché è un esempio di «società moderata dove musulmani e cristiani possono coesistere pacificamente», e rappresenta quindi un modello per la regione e per il mondo intero. Neppure quando parla delle milizie di Hamas, si irrigidisce: spiega agli americani che «il terrorismo non è monolitico» e che mentre al Qaeda è un pericolo globale, gruppi come Hamas rappresentano un problema più locale e questa distinzione è importante:«Non riuscite a trovare una formula creata su misura per Hamas, in modo che rinunci alla violenza, senza che gli sia richiesto di abbandonare completamente le sue posizioni?», chiede agli Usa, sottolineando che in diplomazia «dobbiamo essere creativi e ricordare il bisogno degli arabi di salvarsi la faccia».
Dal Medio Oriente a Cuba, dalla Cina a Timor Est e al Venezuela, non c’è uno scacchiere in cui monsignor Parolin non dimostri di sapersi muovere e di sapere ragionare sui grandi scenari. Ai diplomatici di Bush che gli dicono che l’America vuole un’Europa forte come partner, ma non come contrappeso degli Stati Uniti, un’Europa che non chiuda le porte alla Turchia, perché una Turchia integrata contribuirebbe allo sviluppo di «un Islam europeo, grazie all’assorbimento dei valori democratici da parte dei musulmani che vivono lì», Parolin risponde che la Santa Sede non ha nulla contro le posizioni americane sulla Turchia, ma che prima Ankara deve essere in grado di raggiungere gli standard richiesti dall’ingresso in Europa. Quanto al papato di Ratzinger si muove in due precise direzioni: recuperare l’Europa, promuovendo la spiritualità che nelle società secolarizzate europee è sempre più offuscata, e lavorare per aiutare l’Islam a svilupparsi secondo una direzione più tollerante e capace di dialogare con le altre religioni.
Europa, Medio Oriente, Islam e fondamentalismo. Dal database di WikiLeaks emergono due cablo che portano a chiedersi fino a che punto la Santa Sede e i suoi diplomatici di punta, come Parolin, abbiano in qualche modo collaborato con la guerra al terrorismo condotta dagli Usa. In un file del 2004, il monsignore, nel corso di una conversazione sulla situazione in Iraq, tira fuori lo scandalo delle torture perpetrate dai soldati americani nella prigione di Abu Ghraib. Un caso che fece il giro del mondo, con le immagini choccanti delle torture che finirono su tutti i giornali del globo. Stando al cablo, tutto quello che Parolin sa dire agli americani è chiedere come sia potuto succedere quello scandalo «tanto disgraziato» che ha «ampiamente danneggiato le relazioni tra l’Occidente e il mondo musulmano, fornendo munizioni agli estremisti». Non risulta alcun commento, neppure cauto, sull’orrore di quelle torture che, insieme con il lager di Guantanamo, sono diventate un simbolo delle atrocità commesse dagli Stati Uniti nella guerra al terrorismo.
Un altro cablo dell’agosto 2005 lascia capire che la diplomazia Usa teneva in qualche modo informato il Vaticano sul campo di prigionia di Guantanamo: «L’ambasciata», scrivono gli americani, «ha sollevato la questione di Guantanamo e dei detenuti in un primo contatto con il viceministro degli Esteri, Pietro Parolin». Il documento però, stranamente, non contiene alcun riferimento ai contenuti della conversazione tra Parolin e la diplomazia Usa: impossibile dire cosa si siano detti su Guantanamo. L’unica informazione che il cablo aggiunge è la seguente: «Parolin ha detto che farà una revisione della questione e poi fornirà una risposta. L’ambasciata cercherà altre opportunità di informare persone chiave del Vaticano sulla faccenda e riferirà prontamente al Dipartimento (di Stato)». Nel database dei file di WikiLeaks non c’è traccia di alcuna risposta di monsignor Parolin: né di alcun documento che permetta di fare luce su questo file criptico.