Ugo Bertone, Libero 12/9/2013, 12 settembre 2013
CON LEHMAN CI HA GUADAGNATO L’AMERICA
Alle due del pomeriggio di domenica 14 settembre 2008, ora di New York l’avvocato Harvey Miller, celebre esperto di diritto fallimentare, consegnò al tribunale di Manhattan la richiesta di ammissione al Chapter 11, l’anti - camera della richiesta di fallimento per Lehman Brothers: un passivo, secondo il primo inventario, da 613 miliardi di dollari. Un “buco”, si sarebbe scoperto nel giro di poche ore, in grado di inghiottire l’intera finanza mondiale nella crisi più grave degli ultimi 80 anni.Un incubo da cui, ahimè, l’Italia non è ancora uscita: cinque anni dopo, infatti, la ricchezza di casa nostra è di 8 punti percentuali in meno di allora, il reddito è caduto, in media, di una mensilità e mancano all’appello 1,7 milioni di posti di lavoro.
Anche per questo vale la pena di fare, cinque anni dopo, il punto sul crac di Lehman, banca d’affari che ha avuto un ruolo rilevante nelle partite della finanza italiana (al fianco di Carlo De Benedetti, soprattutto). A che punto è l’eredità amara del default? A Manhattan l’avvocato Miller, affiancato da alcune centinaia di colleghi, non ha ancora finito il suo lavoro che gli ha fruttato una parcella, tutto compreso, di due miliardi di dollari. Nemmeno troppi, dice lui, visto l’impegno, le difficoltà ed i risultati ottenuti. Il prossimo 3 ottobre i creditori della banca riceveranno un assegno di 14 miliardi che andranno ad aggiungersi ai 29 già incassati. Entro il 2016, assicura Miller, 80 anni, la cifra salirà a 65 miliardi per poi arrivare a quota 80 due anni dopo. In tutto, per ogni dollaro bruciato, i creditori incasseranno 22 centesimi: insomma, ci sono state liquidazioni peggiori.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il bilancio della crisi porta ad un risultato clamoroso: Washington, lungi dal rimetterci, dalla crisi ci ha addirittura guadagnato. Il piano Tarp (Troubled Asset Relief Programme) lanciato nel 2009 a sostegno di banche, compagnie d’assicurazione e l’industria dell’auto in ginocchio, ha comportato un esborso complessivo di 421 miliardi di dollari, meno dei 700 miliardi stanziati dal Congresso nei giorni successivi al crac di Lehmanche aveva investito pure Goldman Sachs, Merrill Lynch e, soprattutto, il colosso delle assicurazioni Aig. Ma, assicurano al Tesoro Usa, all’inizio di settembre 2013 erano stato già restituiti 422 miliardi, uno in più di quanto speso. In particolare, le 650 banche che hanno avuto il sostegno del governo (238 miliardi) hanno restituito tutto con gli interessi (mancano all’appello solo 3 miliardi destinati a piccoli istituti). L’auto è ancora in rosso per 15 miliardi (per lo più per Gm), il settore immobiliare non ha ancora recuperato del tutto, a differenza delle due agenzie governative dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, che potrebbero essere privatizzate in tutto o in parte a vantaggio del bilancio federale. Insomma, dal punto di vista contabile il “buco” è stato recuperato: Goldman Sachs, “salvata” dall’allora segretario al Tesoro Hank Paulson, è di nuovo sulla cresta dell’onda come dimostra il suo prossimo ingresso nel Dow Jones 30, il gotha di Wall Street. Lo stesso vale per Bofa- Merrill Lynch. Insomma, a pagare il prezzo più alto della crisi è stata Lehman Brothers, l’unica che il Tesoro Usa ha lasciato fallire. E, naturalmente, il big boss Richard Dick Fuld, il marine che, dal 1993 al 2007 aveva moltiplicato il valore della banca da 4 a 82 dollari. Ma Fuld può consolarsi con una vecchiaia dorata: durante la sua presidenza ha incassato circa 500 milioni di dollari. Le vere vittime restano i milioni di sfrattati, disoccupati o sottoccupati che l’economia, anche in recupero, non è ancora riuscita ad assorbire.
Quali garanzie offre oggi la finanza globale contro una Lehman Brothers bis? In questi anni ci sono stati numerosi interventi, sia da parte delle autorità nazionale che degli organismi internazionali, per ridurre il grado di rischio delle grande banche, “troppo grandi per fallire”, così costose, come si è visto, per i contribuenti. All’origine della grande crisi, hanno concordato le analisi, c’è stato un eccesso di fiducia: le banche, sorrette dalla liquidità distribuita dalla Fed ai tempi di Alan Greenspan, hanno moltiplicato i propri impegni oltre ogni ragionevole prudenza. Si sono prestati quattrini anche a nullatenenti, per poi impacchettare i i mutui in prodotti derivato quasi incomprensibili. E così via. Quando la bolla è scoppiata, gli istituti più deboli o più esposti, sono stati spazzati da una crisi di liquidità.
Oggi, per ovviare a questi pericoli, le normative hanno previsto vincoli ben più rigidi per le banche, culminate nei ratios imposti da Basilea 3 sul sistema bancario. Per ogni acquisto di prodotti rischiosi gli istituti devono prevedere riserve assai più elevate. Tutto a posto? A spazzar via l’ottimismo ci pensa Brady Dougan, numero uno del Crédit Suisse, uno dei tre banchieri (assieme a Lloyd Blankfein di Goldman Sachs e Jamie Dimon di JP Morgan) passato indenne dal ciclone del 2008: «Le banche sono più sicure, il sistema no». Ovvero il cerino (vedi il rischio) è passato dalle banche ai grandi investitori, fondi pensione in testa, che hanno assorbito in questi anni i titoli (524 miliardi in tutto, secondo il Financial Times) emessi dalle società e dagli Stati sovrani. Una montagna di carta che vale 9.200 miliardi di dollari, sfornati dalle banche centrali per scongiurare il ripetersi del ’29.