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 2013  settembre 13 Venerdì calendario

NON SI È MAI SOLI COME DUE INNAMORATI


«Gli innamorati sono soli al mondo»: il detto è divenuto p rove rb i a l e. Ha dato il titolo ad un film di Louis Decoin, uscito nel 1947; l’attore principale era Louis Jouvet. Ricordo di avere canticchiato, all’età di dodici o tredici anni, il valzer che faceva da colonna sonora, risentendo forse senza sapere perché - del suo fascino ambiguo (a dire il vero non gioioso, ma nemmeno triste). L’evocazione della solitudine a due per le strade di Parigi è un tema trito e ritrito delle canzoni d’amore. Ma in che cosa consistono esattamente la «solitudine» di cui esse parlano e l’«amore» che ne è la causa?

Malgrado la sua apparente banalità, la frase da cui siamo partiti si presta a due interpretazioni differenti. La prima è la più immediata: la solitudine a due degli innamorati prigionieri della loro passione e ciechi verso tutto il resto. Tale interpretazione basta a spiegare quella sorta di malinconia che quella frase porta con sé e che i ritornelli delle canzoni popolari esprimono a modo loro: ognuno sa o dovrebbe sapere che la passione è passeggera e che, nella sua forma esplosiva ed esclusiva, è destinata a morire. Ad ulteriore sostegno di questa interpretazione si può d’altro canto aggiungere la considerazione del fatto che la solitudine degli innamorati è rafforzata dall’indifferenza, dall’incomprensione o dalla gelosia degli altri, di coloro che non hanno mai conosciuto l’amore o che l’hanno scampata bella.

È tuttavia possibile fornire una seconda interpretazione, più letterale, di quel detto che forse esprime il vero significato della prima. Se gli innamorati sono soli al mondo, lo sono ciascuno per proprio conto: due solitudini vengono a coincidere; è questa unione che chiamiamo amore, sia che si manifesti come «colpo di fulmine» improvviso sia che si manifesti come un movimento progressivo ma irreversibile, movimento che Stendhal chiamava «cristallizzazione». Per quanto fusionale possa essere o sembrare, è pur sempre un’unione di due individualità, il sentimento stesso della fusione appartiene al singolo, ognuno lo vive per sé. I temi dell’anima gemella e delle metà complementari nel Simposio di Platone esprimono un desiderio: l’apparente unione di due solitudini alimenta per qualche tempo la nascita di un’illusione. I due innamorati sono soli al mondo, ma il mondo comincia con l’altro. La «doppia solitudine» è il vero significato della «solitudine a due». Le parole, le parole pronunciate spontaneamente o riprese più sottilmente dai poeti, lo affermano e lo confessano con ingenuità. Cercano di esprimere la voglia di vivere intensamente che si prova quando sentiamo sorgere intorno a noi un mondo che improvvisamente acquista più forza ed evidenza: «Oh, vorrei tanto che anche tu ricordassi / i giorni felici del nostro amore / Com’era più bella la vita / E com’era più bruciante il sole» (Jacques Prévert, Le foglie morte , trad. di Maurizio Cucchi, Guanda 2004).

L’altro, nella fusione della passione amorosa, è l’uomo o la donna che trasforma il mondo con la sua presenza. Ma ognuno vive il suo sogno con le proprie sensazioni e i propri colori e vi trasporta la propria immagine dell’altro. In tal senso, la «relazione amorosa» non è propriamente una relazione; una relazione tra due individui, per quanto possa essere forte, non si lascia compromettere dalla tentazione della «fusione». La fusione non è solo la simpatia o l’empatia, è il divenire padroni dell’altro a livello immaginario e, in tal senso, la negazione di esso, una forma di cannibalismo vorace e pulsionale. Per questo motivo, rompere lo stato di sudditanza reciproca a cui in definitiva corrisponde l’unione di due solitudini può essere molto pericoloso: nel momento in cui si profila la possibilità di un amore autentico e illuminato, grazie al riconoscimento dell’altro in quanto altro, l’egoismo della passione impedisce spesso di costruire una relazione. La disillusione, la delusione e la disaffezione possono però fornire anche l’occasione per giungere a una scoperta, la prova dell’esistenza dell’altro, e per rendere possibile un nuovo inizio: una sfida, una promessa, o al contrario, una minaccia di morte, la fine dell’avventura e della storia d’amore.

La consapevolezza di questa forma esacerbata di solitudine è il tratto caratteristico di un personaggio come Don Giovanni: in questo caso, non è opportuno parlare di infedeltà in quanto egli non prende nemmeno in considerazione la possibilità di una relazione. Il «fascino delle inclinazioni nascenti», al quale dice e sa di essere così sensibile, riguarda soltanto lui. Il Don Giovanni di Molière non è un seduttore, è un amante di sensazioni; è possibile immaginare che egli abbia avuto un’esperienza di solitudine a due con la moglie Elvira e che – giunto ad un certo punto della sua vita – abbia preferito alle illusioni effimere della «solitudine a due» la solitudine radicale delle emozioni istantanee, delle conquiste facili e delle menzogne immediate. Don Giovanni è un personaggio tragico che, al di là delle peripezie della sua vita amorosa, sembra incarnare in anticipo sui tempi la forma di solitudine tipica della modernità ed oggi molto attuale.