Alberto Arbasino, la Repubblica 13/9/2013, 13 settembre 2013
MAESTRI A SALISBURGO
SALISBURGO Forse qualche nostalgia? Mezzo secolo fa, si fermava la macchina davanti al Mozarteum e agli alberghi, e loro stessi chiedevano quanti posti per la sera medesima. Poi, dentro, nelle sale piccole, l’incomparabile Reri Grist nell’ Ariadne auf Naxos magnificamente diretta da Karl Böhm con gli struggenti squilli di Jess Thomas nel «Zirze Zirze». E l’eccellente Ratto dal Serraglio crepuscolare e autunnale diretto da Strehler come una Venezia Morta di Fabrizio Clerici. E nell’immenso grande auditorio, Karajan chiude un Boris Godunov "aperto" con un cinemascope di luoghi tuttora esistenti a Mosca. Senza troppi riguardi per le lamentele del povero Innocente o per le trame erotiche in Polonia.
Fra innumerevoli Don Giovanni e Rosenkavalier e Così fan tutte e Macbeth e Nozze di Figaro e Capriccio e Serenate e Mattinate e concerti corali o basilicali o da camera, ecco l’increscioso dissidio fra Luciano Berio compositore e Italo Calvino librettista. Imbarazzante per chi era amico di ambedue, incaricato di sorvegliare gli andamenti, ma fondatamente persuaso che il musicista abbia soprattutto ragione. Un Re in ascolto, non già "opera" ma "azione musicale", apparve sfortunata malgrado Lorin Maazel e Götz Friedrich, sia per un’incapacità musicologica del pubblico, sia perché il pranzo celebrativo si dovette spostare in un locale secondarioa causa di inadeguatezze nei vestiti italiani.
Venne poi il periodo di Anif. Si alloggiava non lontani, si pranzava in un castelletto, e quando si chiese insolitamente un vino rosso, il padrone raccontò che veniva da una vigna viennese dell’Ordine di Malta, da raccomandare. Detto, fatto. Lo si segnalò a una principessa napoletana educata a Vienna. E lei, approvando il padrone, confermò che avevano sì vigne vicine, ma appartenenti ai suoi consuoceri Asburgo.
Le memorie salisburghesi potrebbero diventare abbondantissime. Però un’osservazione contemporanea riguarda soprattutto la mostritudine. Certamente i prezzi sono sempre stati altissimi; e la pompa ostentata dai vecchi e nuovi ricchi molto anziani può apparire allucinante. Com’è naturale, per motivi religiosi, non vanno a spettacoli o a mostre le innumerevoli e corpulente turiste islamiche in giro e in nero da capo a piedi. Spesso anche coperte in faccia, mentre i mariti mangiano. Mentre la massa dei vecchi abbigliati e agghindati per l’occasione può impressionare anche i più abituati. Tutto esaurito;e torna in mente una storia vera a Bayreuth. «Avete biglietti?». «Sì, due per domani sera». «E come mai?». «Sono morti».
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Qui, né belli, né belle, né giovani. Dunque, vedendo tre lunghe opere in tutto, si baderà soprattutto ai loro orari interni. Nel Don Carlo, «L’aurora imbianca il mio veron», a detta di Filippo II. E «già spunta il dì». Ma non solo il Grande Inquisitore, nonagenario e cieco, è già (o ancora) in giro. Anche la Regina, e Posa, e la Eboli (con varie ironie, ai tempi, quando Cristo secondo Carlo Levi si era fermato quao là). Nei Maestri Cantori, poi, dopo che il Guardiano Notturno ha proclamato che «Sono le dieci, e tutto va bene», con lodi al Signore, ricomincia la calzoleria coi martellamenti all’aperto, disturbando il vicinato e causando la famosa Baruffa. E circa lo sfortunato Così fan tutte, i buhhh alla prima appaiono meritatissimi, se si pensa che nella svelta commediola (come ripetono i personaggi) l’intera scommessa dovrebbe durare 24 ore, con tutti i vari travestimenti, mentre l’eccessiva durata mostra gravità e lentezze tardo-wagneriane.
Il vero problema, come all’Arena di Verona, quindi consisterà sempre nel dover riempire la grossissima scena con centinaia di coristi e comparse e faccendieri. E la funzione del "Dramturg" accanto al regista soprattutto consiste nel ridurre le dimensioni vastissime per le situazioni di intimità? O consigliando l’arrivo in Baruffa dei Sette Nani di Biancaneve, laddove nei Meistersinger al Covent Garden si spenzolavano i clowns dal soffitto e dai lati in camicia da notte? O magari vestendo da SS a Gerusalemme le truppe di Erode nella Salome di Richard Strauss?
Sarà poi stato un nero «avello» quell’Escuriale in costruzione con Filippo II ritratto spesso da Tiziano e desideroso di galanterie con Veneri e Danai tuttora al Prado? Forse tuttora amante della spagnolesca Eboli, già un po’ Goyescas fra gli sprizzi stralunati e i giocherelli delle piscinette... Mai, mai volendo risolvere la così voluta e insistita ambiguità finale: sarà davvero il celebrato compianto nonno Carlo Quinto, l’officiante nell’accoglienza del povero nipote Don Carlo in una clausura così perpetua e punitiva? O invece un vecchio frate qualunque, con brutte conseguenze sul piano tragico?
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I Meistersinger londinesi erano diretti da Antonio Pappano, e qui invece da Daniele Gatti, mentre Pappano dirige Don Carlo con la regìa di Peter Stein. E Gatti dirigeva Don Carlo alla Scala. (Ma là, certo, ah quel Don Carlo diretto da Muti con Samuel Ramey e Pavarotti, le Dessì e D’Intino, e regìa di Zeffirelli... E proprio qui, una trentina d’anni fa, un ottimo Così fan tutte, fra illuminismo e romanticismo, con Muti e Hampe e Mauro Pagano)... Stavolta a Fontainebleau la foresta è sparita. Quattro misere finestrine là in fondo; e una gran massa di famigliuole boscaiole occupa scultoreamente l’enorme scena dove anche un Pavarotti parrebbe nanificato. Lì Anja Harteros si perde nel Nulla, dopo un corteo, e vi incontra un Jonas Kaufmann sempre assai nervoso.
Da questo punto, sempre il cuore sanguina mentre qualche Carnevale continua a impazzare. Ma senza musiche indimenticabili, come nella Traviata o nel Macbeth. Abiti generalmente neri, in scene vuote e spoglie. Mai Tiziano. Molto «farla lunga» con situazioni grevi da Opéra, maltrattando la scena troppo larga dove si appare nanetti. Luci e ombre anche sulla reggia, dove un ballo in maschera risulta stralunato e imbranato. Ci si perde spesso nel Nulla. Chi sarà più vecchio, tra Filippo IIe il Grande Inquisitore?
Costumi sontuosi per l’autodafè, con fiamme proiettate e vapori invasivi. E tutto un assortimento di popolazioni: beghini e beghine di Fiandra. Bruges a Madrid! Due seggioline per i sovrani. «Soccorso alla Regina!», in un tinello. Poi, una tipica prigione da telefilm abituali. Secondo questa regìa, il baritono bisteccone Thomas Hampson è molto innamorato del tenorino nanìn. Gran nitore e lindore. Né barocco né rococò. Risparmio. Mai però volendo risolvere l’intenzionale ambiguità conclusiva. Sulla soglia del monumento conventuale e tombale, si stringe la mano come fa Don Giovanni col Commendatore, o ci si accinge a una clausura eterna come a suo tempo il nonno?
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Ai Meistersinger sembra fatale rammentare la noia con cui non si ascoltavano i «rote, blau und grüne» con le infinite regole della "Tabulatur" secondo l’apprendistamaestro David nelle regìe emblematiche e ferme di Wieland Wagner. E invece, con quale soddisfazione si salutò, al Maggio Fiorentino, con Mehta e Hampe, la prima esecuzione in tedesco ma con sopratitoli proiettati. Si potevano così degustare i tanti sprizzi e sprazzi di quelle infinite regole, forse pari alle allitterazioni di Sigfrido nella fusione della Spada. Ma quando Hans Sachs esalta nel finale tutta la germanicità e poeticità delle quattro stagioni e di ogni orario fra l’aurora e il crepuscolo e del sublime sogno di Eva nel Paradiso (ma non ne fu cacciata con Adamo?), riecco i paragoni con una analoga specificità napoletana: cuore e fiore e ammore con chitarra e mandolino... Ah, Totò.
Con direzione di Daniele Gatti, regìa di Stefan Herheim, drammaturgia di Alexander Meier-Dörzenbach, questi Meistersinger presentano un interno di Hans Sachs vasto come l’immenso palcoscenico e ammobiliato di masserizie e suppellettili. Armadi, armadietti, scaffali, scrivanie. Busti, inginocchiatoi, crocefissi. Non tante librerie, nonostante le infinite regole della famosa Tabulatur. Va e viene il frontespizio di Des Knaben Wunderhorn, popolare antologia di fiabe: Il meraviglioso corno del fanciullo. Giù fra la gente, dilaga la mostritudine; e la chirurgia estetica deplorevole.
Forse alla base dei Maestri Cantori si dibatte il Ruolo dell’Intellettuale: fra Arte e Cultura più o meno popolare o di élite. Infatti ne discorrono i protagonisti, più o meno anziani: il vecchio Ciabattino in berretta da notte che tira la tenda con ammicchi su cavallino e teatrino e giocattoli e culla. E l’Apprendista grassoccio, che deve spiegar tutto a un attempato Cavaliere, sempre con la spada snudata fra borghesi che non possono portarla anche se ricchi. Costumi fantasiosi. Parecchi berrettini. Mani spesso addosso. Sogno, oppure no, quando si tira la tenda in vestaglia e berretta? Fasi di poesia?
Sarà poi un’idea drammaturgica, l’ingrandimento colossale delle scaffalature, e il gigantismo dello scarpone alto come una persona su cui lavora Sachs? E fra i personaggi più senior, come distinguere i romantici malandati dai gaglioffi in primavera, al di là delle caratterizzazioni macchiettistiche?
Ecco qui così assai simpatico, e non già minchione, il Beckmesser impersonato da Markus Werba, brillante Papageno con Claudio Abbado nel Flauto magico a Ferrara. Ed evviva per «Raperonzolo Raperonzolo, metti fuori il tuo codinzolo» tra i nanetti e i fumetti disneyani alla Baruffa, non senza qualche porcheria. Anche pupazzoni da Carnevale a Viareggio, e trombettieri, e trenini-singhiozzo, fra i grossi piani da supermarket. O nei teatrini di marionette, che mimano i «Ridi pagliaccio» e «Heil Sachs!». Fondali bui, dietro il San Giovanni o San Crispino in ricchi costumi sui prati festivi. Nessun accenno a un imminente Lutero.
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Perplessità. Così fan tutte - diretto da Christoph Eschenbach, regìa di Sven-Eric Bechtolf, drammaturgia di Ronny Dietrich - merita i buuuh ricevuti alla prima, per la lentezza e lunghezza dei tempi, in un’opera buffa che dovrebbe svolgersi in 24 ore? Oltre tutto, in Italia, le «due dame ferraresi» sarebbero le sorelle Balboni, Letizia e Loredana, che sposarono Antonioni e Pasinetti. Vivevano soprattutto a Venezia, con bel giardino sul Canal Grande. Queste Fiordiligie Dorabella sono invece due babbee senza famiglia che abitano a Napoli, capitale dell’opera buffa, in uno sfarzoso jardin d’hiver gremito di piante dove chiunque va o viene, ma come tormentone si sbagliano spesso. E forse allora faceva ridere uno pseudo-arruolamento in quella marina borbonica ove si usava il «facite ammuina» per effetto comico, e non già nella veneta marina che doveva combattere il Turco. Se poi si ricorda che appena una generazione dopo compare alla Scala Il Turco in Italia di Rossini, con tutti quei virtuosismi pirandelliani di Felice Romani...
Tutto solenne. «Idol mio, il mio tesoro». Drammaturgia seduta, sotto la tovaglia del tavolo. Poi, buuuuh. Lentezze maestose.
Mangiano, rimangiano. Tutto un appiattirsi entro una pittura piuttosto macchiaiola. Manti, parrucche, baffi. Travestimenti alla buona. Le due grulle ci cascano, ogni volta, con gli spasimanti (?) e con la cameriera, in una mezza giornata che pare un’eternità. E il Filosofo napoletano la fa assai lunga, nella logica e nell’estetica e nella pratica.
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Pare purtroppo nel contempo inaridita la vocalità dei Pavarotti, Corelli, Freni, Simionato, Cossotto, Gobbi, Petri, Siepi, eccetera.