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 2013  settembre 13 Venerdì calendario

«NOI CHE FACCIAMO I PUBBLICI MINISTERI» - «E

su questo, Marco ha le idee chiare: non si può fare il pubblico ministero senza averne voglia. Meglio lasciare che farlo male». Sono tre righe di una storia che la riassumono per intero, e contengono tutte le altre. Il protagonista è Marco Ghezzi, magistrato che ha lasciato la toga in anticipo rispetto alla pensione, ritenendo di non poter proseguire con la determinazione che gli aveva consentito di contrastare e punire abusi sessuali indicibili su bambini e ragazzine. Altri invece continuano, animando il corpo dei circa 2.000 pm che hanno il compito di perseguire reati e garantire legalità. Un lavoro affascinante e difficile, che contempla poteri da maneggiare con cura perché incidono profondamente sulle vite degli altri, e incontra a ogni passo ostacoli — leciti e illeciti — frapposti dalle controparti. In mezzo a continue polemiche. Negli ultimi tempi nel mirino sono finiti soprattutto i giudici, per via delle note sentenze che stanno mettendo a rischio la tenuta del governo, ma nell’ultraventennale conflitto tra giustizia e politica il primo bersaglio sono proprio i pm. Quelli che spediscono avvisi di garanzia, ordinano perquisizioni, chiedono intercettazioni, arresti, condanne. Inseguendo ipotetici colpevoli da portare davanti ai giudici con prove sufficienti a ottenerne la condanna. Così almeno dovrebbe essere, con la conseguente capacità di fermarsi se gli indizi si rivelano deboli o sfuggenti.
Le storie dei cinque pm che il giornalista Lionello Mancini ha scelto di raccontare in L’onere della toga (Rizzoli-Bur, pagg. 279, 11 euro) sembrano rifarsi a questo principio, ma non tutti lavorano così. Ci sono anche pm «che non mollano mai, incapaci di ammettere o comprendere quando un fascicolo si sta riempiendo di teoremi, ipotesi, ragionamenti anche interessanti, ma non di prove». Una pratica «insana», che non fa bene al lavoro del singolo rappresentante dell’accusa e a quello di tutti gli altri, vista la generale tendenza a generalizzare opinioni e accuse che infiammano (e avvelenano) il dibattito sull’amministrazione della giustizia.
Le vicende anche personali dei magistrati che Mancini narra attraverso il loro impegno quotidiano si tramutano, all’opposto, in un sano invito a non generalizzare. Perché ogni uomo o donna pm ha la propria storia, il proprio approccio al lavoro e alla vita privata (che può incidere sul lavoro), una diversa capacità di affrontare difficoltà e superare muri all’apparenza insormontabili. Come il pm di Forlì Fabio Di Vizio, che per provare a entrare nei segreti che garantiscono all’enclave di San Marino l’impenetrabilità di uno Stato-cassaforte, scrive direttamente al governatore della Banca d’Italia, ottenendo un colloquio che gli aprirà spiragli inaspettati. O la pm antimafia di Milano Alessandra Dolci, che affondando le mani sugli affari della ’ndrangheta in Lombardia tira su testimonianze più che reticenti, e s’indigna in aula, assieme al giudice, di fronte ai «non so» e «non ricordo» che contraddicono l’evidente realtà.
Oppure la pm di Bologna Lucia Musti, che dopo aver smascherato i killer del piccolo Tommaso Onofri riesce finalmente a piangere, sciogliendo tensioni e amarezze di un’inchiesta nella quale ha provato nausea per ciò che ha visto e che lei stessa è stata costretta a fare per arrivare alla verità. E l’ex procuratore di Bolzano Cuno Tarfusser, che sceglie l’«esilio» della Corte internazionale dell’Aja dopo aver subito le gelosie di colleghi che mal sopportavano i suoi metodi organizzativi apprezzati da ministri ritenuti ostili. Percorsi diversi che confermano la peculiarità di un lavoro complicato, che non si può fare come fosse un impiego qualunque. Senza averne voglia.
Giovanni Bianconi