Michele Farina, Corriere della Sera 13/09/2013, 13 settembre 2013
SE UN PADRE PUO’ UCCIDERE SUA FIGLIA IN NOME DI UNA RELIGIONE DISTORTA
Halima è stata uccisa dal padre con due colpi di kalashnikov davanti agli abitanti del villaggio, gli uomini da una parte e le donne dall’altra, trecento persone riunite tra le colline remote e brulle della provincia di Badghis, distretto di Ab Kamari, ovest dell’Afghanistan.
Il nome Baghdis vuol dire «la casa dei venti» e migliaia di italiani conoscono quel nome e quelle zone, molti ci sono passati, diversi hanno combattuto, qualcuno è morto. La strada che da Herat porta su a Bala Murghab, dove il nostro contingente ha lavorato fino a un anno fa, non attraversa il villaggio di Kookchaheel. Nessuno dei nostri Lince forse è mai transitato lungo la pista che si vede nel video diffuso dal quotidiano El Mundo a distanza di quasi 5 mesi da questo orrore: il megafono appoggiato a terra al centro della scena, l’imam Abdul Ghafur vestito di bianco che spiega la condanna a morte della giovane Halima colpevole di adulterio, «perché consegnarla al governo vorrebbe dire liberarla», perché il governo «è corrotto» (ed è vero), perché Halima merita di essere uccisa e le prove sono in cielo: «Voi stessi — dice l’imam alla folla — capite bene perché non piove». La siccità è colpa di quella ragazza di 18-20 anni il cui profilo sfuocato appare nel video in mezzo alla distesa secca, in ginocchio aspettando la morte. Il suo volto è coperto dal burqa, il padre deve esserle vicino. Si vedono gli sbuffi di fumo bianco dei proiettili, il megafono e la gente che grida «Allah Akbar», forse il padre che torna indietro alzando le mani in segno di trionfo e poi in mezzo alla folla degli uomini, tra le rade motorette che costituiscono l’unico mezzo visibile di locomozione, per un secondo si intuisce qualcuno disteso a terra che piange. Chi ha ripreso le immagini con il telefonino, quel 22 aprile 2013, ha raccontato che il ragazzo in lacrime era il fratello di Halima.
Ora l’imam Abdul Ghafur è rinchiuso in una cella di Qala-e-now, villaggio-capoluogo di una delle province più arretrate dell’Afghanistan, capitale dei pistacchi e dei tappeti, a una cinquantina di chilometri dal luogo dell’esecuzione del 22 aprile. Lì il contingente spagnolo (nel settore della missione Isaf a guida italiana) ha la sua base principale. Lì la giornalista del Mundo Monica Bernabé ha raccolto la testimonianza dell’influente leader religioso che aizzava la folla al megafono, arrestato dalla polizia soltanto a fine luglio: «Certo c’ero anch’io quando l’hanno uccisa, però c’era anche molta altra gente. Io non ho fatto nulla: se il governo non controlla la popolazione, come faccio a farlo io?».
Non ha molta importanza cosa abbia fatto Halima. Su di lei si raccontano diverse storie: che il marito era violento, che l’avesse ripudiata andando a vivere in Iran lasciandola con un figlio a casa dei suoceri che abusavano di lei. Si dice che lei avesse lasciato quella casa per scappare con un cugino. Forse lui l’ha riportata indietro, forse è fuggito in moto abbandonandola senza darle scelta, forse è stato il padre ad andare a prenderla in un villaggio vicino. Non ha importanza. L’orrore è che Halima ha avuto tutti contro. L’imam che l’ha condannata e il padre che l’ha uccisa. La famiglia e gli anziani del villaggio che diverse volte negli anni passati si saranno seduti a parlamentare con occidentali di pattuglia: qualcuno tra gli anziani avrebbe voluto lapidarla, ma la lapidazione avrebbe forse comportato anche la presenza del cugino con cui era fuggita e che guardacaso l’ha fatta franca. Non sono le grida «Allah è grande» e il megafono e il fumo degli spari a colpire di più: è la folla che guarda, tra le colline brulle, nella provincia dei pistacchi e degli italiani.
Michele Farina