Pejman Abdolmohammadi, Limes: Utopie del tempo nostro 9/2013, 12 settembre 2013
LO STATO ISLAMICO PERFETTO ANATOMIA DEGLI AYATOLLAH
1. L’Iran di oggi è profondamente diverso rispetto al 1979, anno in cui l’ayatollah Ruhollah Khomeini riuscì a guidare la rivoluzione contro la monarchia di Mohammad Reza Pahlavi. L’odierna società iraniana ha sviluppato, durante i trentaquattro anni di Repubblica Islamica, sia sul piano valoriale sia sotto il profilo politico-culturale, nuove idee ben lontane da quelle di fine anni Settanta. Si è prodotto un disincanto graduale, ma progressivo, nei confronti dell’utopia della rivoluzione islamica promessa dall’allora Guida suprema.
Ma qual è lo Stato islamico perfetto teorizzato dalla Guida suprema negli anni Settanta? Khomeini sostiene che l’islam è una religione completa, che racchiude in sé leggi adatte per tutte le questioni concernenti la vita spirituale e materiale dell’uomo. Nello stesso modo in cui l’islam prescrive precetti sugli atti di culto e di fede, dispone normative riguardanti le questioni sociali e politiche. Secondo Khomeini, esso può rispondere a tutte le necessità del genere umano: “Tutte le leggi e le regole di cui avete bisogno”, spiegava l’ayatollah, «sono presenti nell’islam, sia quelle che si riferiscono all’amministrazione dello Stato, alle tasse, ai diritti, alle pene, sia quelle che si riferiscono ad altri problemi. Non avete bisogno di alcuna nuova legislazione» [1].
Il collegamento fra religione e politica è profondo ed è per questo che nell’islam, spiegava, “l’arte di governo rappresenta la sperimentazione pratica del diritto islamico in tutte le sfere della vita pubblica del credente. Il governo rappresenta in concreto il fiqh sul piano politico, sociale, economico e culturale. Il diritto islamico è la teoria perfetta per la guida dell’uomo e della società dalla culla alla morte» [2].
La Guida suprema nella sua teoria del velayat-e faqih (il governo del giureconsulto) sostiene che l’islam è una serie di norme e codici che si interessano sia del privato sia del pubblico e, soprattutto, la cui applicazione richiede la costituzione di un apparato statale completo che si estenda dal settore legislativo a quello esecutivo. Il governo islamico quindi è legittimo, ma soprattutto necessario. Khomeini, essendo un ministro della fede sciita, crede nella dottrina dell’imam e dell’imamato e quindi alla successione legittima di Ali (il primo imam degli sciiti) dopo la morte del Profeta. Pertanto, nel momento dell’assenza degli imam sulla terra, sarà il giureconsulto islamico più saggio del momento ad amministrare il governo. Soltanto una tale forma di Stato, a suo giudizio, può essere considerata ideale per i musulmani.
Secondo la celebre definizione di Karl Mannheim, «l’utopia ha per presupposto non solo di essere in contraddizione con la realtà presente, ma anche di spezzare i legami dell’ordine esistente. Non è soltanto pensiero, e tantomeno fantasia, sogno da gustare in piedi: è un’ideologia che si realizza nell’azione di gruppi sociali. Trascende la situazione storica, in quanto orienta la condotta verso elementi che la realtà presente non contiene affatto» [3]. Anche il governo islamico (Hokumat-e Eslami) proposto dall’ayatollah Khomeini, prima e durante la rivoluzione del 1979 [4], prometteva la formazione di un sistema politico ideale capace di rompere i legami con il passato persiano.
La Guida suprema, durante i discorsi tenuti in Iraq tra il 1971 e il 1978, nella periferia parigina nel 1978 e al suo rientro in patria successivo alla rivoluzione (tra il 1979 e 1981), descrive un nuovo Stato islamico utopico, fondato sulla giustizia sociale e sull’eguaglianza. Tale sistema politico, istituito secondo i principi islamici, tagliava per sempre i legami con la monarchia dei Pahlavi. Pertanto il nazionalismo persiano, il modernismo culturale e la linea politica filoccidentale dello scià venivano stroncati con l’atto rivoluzionario e, di conseguenza, sostituiti dall’ideologia sciita, dalla tradizione islamica e da una linea politica antimperialista, quindi ostile agli Stati Uniti. Khomeini, prima di divenire il capo indiscusso del movimento rivoluzionario iraniano, descrive il proprio progetto con le seguenti parole: «Il governo islamico non è affine agli attuali sistemi di governo. Non è un governo dispotico in cui il capo di Stato impone la sua volontà anche sulla vita e i beni del popolo. Il Profeta, che Dio lo benedica e lo salvi, Ali, l’emiro dei credenti, e gli altri imam non hanno alcun potere di immischiarsi nei beni o nella vita del popolo. Il governo islamico non è dispotico bensì costituzionale. Tuttavia», continua, «non è costituzionale nel significato corrente della parola, che si riferisce al sistema parlamentare o ai consigli del popolo. È costituzionale nel senso che coloro i quali hanno la responsabilità degli affari pubblici osservano un certo numero di condizioni e di norme prescritte dal Corano e dalla Sunna, in cui si esprime la necessità di rispettare il sistema islamico e di applicare i dettami e le leggi dell’islam. Ecco perché il governo islamico è il governo della legge divina. La differenza», conclude, «tra il governo islamico e i governi costituzionali, siano monarchici o repubblicani, consiste nel fatto che i rappresentanti del popolo o quelli del re sono i soli che codificano e legiferano, mentre il potere legislativo è riservato a Dio e nessun altro ha il diritto di legiferare, e nessuno può governare se il potere non gli è stato conferito da Dio» [5].
Nello Stato ideale di Khomeini, infatti, i cosiddetti diseredati (mostaz’afin) saranno supportati dallo Stato e quindi la povertà sarà sradicata. Il governo islamico, secondo l’ayatollah, non dovrebbe essere simile all’apparato monarchico dello scià; esso dovrebbe occuparsi soprattutto degli «ultimi della terra». Questa terminologia entrava nel linguaggio politico sciita, negli anni Settanta, tramite il pensatore islamico Ali Shariati che in occasione della sua traduzione in persiano dei Dannati della Terra di Frantz Fanon, utilizza, per rendere chiara l’opposizione tra oppressi e oppressori, i termini coranici mostaz’afin (indeboliti o diseredati) e mostakberin (arroganti o prepotenti), introducendo in tal modo il vocabolo e la teoria della lotta di classe nel lessico islamico, dando loro un ruolo centrale che non avrebbero secondo i dettami della dottrina religiosa. Questo concetto, basato sullo scontro tra mostaz’afin e mostakberin viene adottato e interiorizzato da Khomeini. Nella definizione del suo governo islamico i diseredati sono i veri protagonisti, perché saranno destinati a vivere nella prosperità.
Il grande successo della Guida suprema è dovuto anche alla sua enorme capacità di comunicare con i ceti più disagiati della società, rendendoli partecipi della battaglia contro i mostakberin della terra, ovvero i tiranni e le potenze imperialiste. Il governo ideale di Khomeini doveva quindi essere in primis approvato da Dio e in secondo luogo accettato dal popolo. «Quando noi parliamo di governo islamico», spiegava, «pensiamo a un governo che sia da un lato voluto dalla popolazione e dall’altro guidato da Dio. Ciò significa che la popolazione deve stringere un patto con Dio stesso. (...) Il nostro desiderio è che tale governo si realizzi e che esso non violi la legge divina» [6].
L’ayatollah Khomeini, per esempio, esorta gli iraniani a non comprare case, perché, secondo quanto sostiene nei primi mesi successivi alla rivoluzione, gli iraniani avranno assicurata gratuitamente una abitazione. Inoltre, propone di utilizzare i proventi del petrolio per assicurare gratuitamente alla popolazione alcuni servizi essenziali. Ecco il testo di uno dei primi discorsi di Khomeini, tenuto nel cimitero di Teheran Behesht-e-Zahra nel 1979 al suo rientro in Iran: «Vogliamo curare», dichiarava, «sia la vostra vita materiale sia quella spirituale. Voi avete bisogno di spiritualità. Essi ci hanno tolto infatti la spiritualità e noi ve la ridaremo. Costruiremo case per tutti, provvedendo gratuitamente ad acqua ed elettricità» [7].
La Guida suprema non tratteggiava soltanto i contorni di uno Stato in cui i beni materiali fossero garantiti, ma parlava anche di una nuova etica pubblica, basata sulla shari‘a islamica. L’ayatollah riuscì a convincere il popolo iraniano che con l’abbattimento della monarchia dei Pahlavi e attraverso la sua leadership sarebbe nato uno Stato islamico in cui tutti avrebbero vissuto in una dimensione ideale. Il suo indiscusso carisma, insieme alla storica e inconscia debolezza del popolo persiano nei confronti della religione o della dimensione spirituale e/o esoterica, favorirono Khomeini nella realizzazione del suo progetto politico.
Una buona parte della popolazione iraniana nel 1979 viveva un momento di euforia spirituale, convinta nel ritorno del Messia. La figura di Khomeini veniva perciò idealizzata. Si vociferava che addirittura il volto dell’ayatollah fosse stato visto da qualcuno sulla luna. In effetti, nella tradizione millenaria persiana, sia nell’epoca pre-islamica (con la filosofia zoroastriana) sia nel periodo islamico (con l’adozione dello sciismo imamita), i persiani hanno coltivato l’idea del Messia (il Sushians nella sua accezione zoroastriana e il Mahdi in quella islamico-sciita) che un giorno sarebbe risorto per salvarli dalle tenebre della tirannide e riportare la luce della libertà. Nel 1979 la popolazione iraniana si era convinta che quel salvatore fosse l’ayatollah Khomeini.
Così, l’utopia della rivoluzione islamica subentrò, come ideologia politica, nell’inconscio della popolazione, in particolare in quello dei giovani, i quali credevano con ferma convinzione a quanto veniva detto loro dal grande ayatollah sciita. Un esempio di questa forte devozione si ebbe durante la guerra tra Iran e Iraq negli anni Ottanta, durante la quale numerosi giovani sacrificarono la vita per l’ideale islamico in cui credevano [8]. Il culto del martirio, valorizzato nella cultura sciita, venne ripreso da Khomeini, il quale riuscì a invitare centinaia di migliaia di giovani iraniani, euforici e a lui totalmente devoti, ad andare a battersi contro l’esercito iracheno. L’ideologia islamica propagandata dall’ayatollah era talmente efficace che i giovani facevano a gara per arruolarsi e proteggere il nuovo Stato islamico, che dopo la rivoluzione sarebbe dovuto diventare un modello da esportare a beneficio degli altri musulmani nel mondo.
Nel corso degli otto anni di guerra contro l’Iraq accaddero diversi episodi in cui minorenni, a insaputa dei genitori, decisero di arruolarsi e persero la vita contro l’esercito iracheno, che sostenuto da alcuni paesi occidentali godeva di una maggiore forza militare rispetto all’Iran post-rivoluzionario. Una disparità che venne colmata proprio tramite l’arma ideologica dell’islam.
2. La Guida suprema imprigionò la realtà, creando da subito nemici interni ed esterni, necessari alla formazione e al consolidamento della Repubblica Islamica. I cosiddetti islamisti moderati, come il primo ministro Mehdi Bazargan e il primo presidente iraniano Abol Hassan Bani Sadr, insieme alle forze laiche e di sinistra divennero, dopo pochi mesi, i nemici interni controrivoluzionari da eliminare, mentre gli Stati Uniti, Israele e poi anche l’Iraq, quelli esterni.
Le prime forze politiche a essere bollate come formazioni antirivoluzionarie dagli islamisti furono quelle laiche appartenenti allo storico Fronte nazionale (Jebhe-ye Melli), fondato nel 1949 dall’ex primo ministro Mohammad Mosaddeq. Poi toccò agli islamisti moderati, ovvero agli intellettuali islamici, rappresentati in particolare da Mehdi Bazargan, primo ministro del governo provvisorio iraniano. Bazargan, che aveva esercitato un ruolo rilevante durante la rivoluzione, venne estromesso dal potere con l’accusa di essere filoccidentale e di aver avuto colloqui riservati con gli Stati Uniti, ormai definiti, nella retorica rivoluzionaria, come il Grande Satana. L’episodio che ne determinò l’allontanamento fu l’occupazione dell’ambasciata statunitense a Teheran da parte di studenti khomeinisti nel novembre 1979. Furono proprio alcuni documenti riservati scoperti nell’ambasciata, nei quali si attestavano contatti tra i moderati di Bazargan e Washington, a offrire il pretesto ai khomenisti per accusarli di essere controrivoluzionari e in grado di ostacolare la piena realizzazione della rivoluzione islamica.
Pochi mesi dopo, sarà anche il primo presidente della Repubblica Bani Sadr a essere oggetto dell’ira dei khomeinisti, che lo accusarono di essere troppo liberale, filoccidentale e contrario al progetto della Guida suprema. Tra i fedelissimi di Khomeini prima della rivoluzione, anch’egli dovette fuggire dall’Iran, nel 1981, verso la Francia.
Tra il 1982 e il 1984 fu il turno delle forze di sinistra, i comunisti, i quali durante le purghe delle altre opposizioni avevano adottato la linea del silenzio e in alcuni casi si erano fatti complici degli stessi khomeinisti. In effetti, le forze di sinistra iraniane (in particolare il partito Tudeh e i Fadayan-e Khalq) si erano alleate con Khomeini già in epoca prerivoluzionaria contro lo scià e gli imperialisti. Ma le basi ideologiche e di pensiero dei due schieramenti restarono totalmente divergenti anche dopo la rivoluzione islamica, e i khomeinisti, una volta rafforzatisi, decisero di mettere fuori gioco le forze di sinistra accusandole di essere controrivoluzionarie e filosovietiche.
Nel 1982, quando ormai il potere era monopolio del clero sciita, Khomeini così spiegava le ragioni per le quali aveva deciso di estromettere le forze laiche e moderate: «Dall’inizio del movimento rivoluzionario, durante le interviste con la stampa internazionale, a Nagaf e a Parigi, ritenevo che il compito dei ministri della fede dovesse essere più elevato di quello di occuparsi delle questioni esecutive e che una volta che l’islam avesse ottenuto la vittoria, il clero avrebbe continuato il proprio lavoro. Però, quando siamo entrati sulla scena politica del paese ho notato che nel caso in cui avessi mandato tutti i ministri a fare soltanto le prediche nelle moschee, l’Iran sarebbe caduto nelle mani degli americani o dei sovietici».
«Abbiamo sperimentato», continuava la Guida Suprema, «che le personalità politiche laiche, quand’anche con impronta religiosa, non condividevano il nostro indirizzo politico che si basava sull’autosufficienza del paese e sulla completa indipendenza dall’Occidente. E quindi, dato che abbiamo visto che era praticamente impossibile trovare delle personalità laiche che rappresentassero degnamente la popolazione, siamo stati obbligati a nominare un membro appartenente al clero come presidente della Repubblica. Anche adesso, se trovassimo delle persone provenienti da ambienti estranei al clero, che volessero governare il paese secondo le regole di Dio, il presidente della Repubblica, Khamenei, e tutto il suo entourage di ministri della fede lascerebbero la politica e tornerebbero alla loro vita religiosa» [9].
Se i nemici interni permisero alle forze rivoluzionarie islamiste di consolidarsi, la presenza di quelli esterni ne legittimò in modo ancora più forte la stabilità politica.
I primi due nemici d’oltre confine, considerati dalla retorica khomeinista come rappresentanti del male sulla terra, sono Stati Uniti e Israele. Khomeini li aveva bollati come Stati antislamici già a partire dagli anni Sessanta, sia prima che durante il lungo esilio (1964-1979). In un discorso tenuto nel 1963 nella città santa di Qom, ad esempio, riferendosi direttamente allo scià disse: «Israele non vuole che in questo paese esista il Corano, Israele non vuole che in questo paese esistano i ministri della fede. Israele non vuole che la shari‘a sia vigente sul territorio. Israele, tramite i suoi infiltrati, ha attaccato la nostra scuola religiosa di Qom e vuole aggredire anche noi e voi popolo. Loro vogliono demolire la vostra economia e impadronirsi delle vostre ricchezze e dei vostri terreni. Il loro piano è quello di eliminare tutto quello li ostacola. Il Corano, i ministri della fede e le scuole religiose rappresentano i veri ostacoli e per questo motivo vogliono distruggerci, picchiandoci, rompendoci le braccia e i piedi e buttandoci giù dai tetti» [10].
Khomeini considerava Israele come il nemico comune degli iraniani e di tutto il mondo islamico. Egli riteneva che lo scià fosse una pedina di Gerusalemme e che l’ostilità del governo verso il clero e la shari‘a fosse alimentata da quel paese. L’ayatollah era contrario a ogni interferenza e ingerenza esterna nella vita politica dell’Iran, e due dei suoi capisaldi erano la piena indipendenza e il raggiungimento dell’autosufficienza. A suo modo di vedere, l’Occidente (e Israele) avevano sempre cercato di sfruttare i paesi islamici impedendo il loro sviluppo economico e industriale. Adesso era giunto il momento per l’intero mondo islamico di ribellarsi all’imperialismo occidentale.
La Guida suprema, prima del suo esilio dall’Iran, aveva puntato il dito anche contro gli Stati Uniti e rivolgendosi al presidente americano aveva espresso l’odio del popolo iraniano insieme a quello di buona parte dell’umanità. «L’America», dichiarava Khomeini, «è peggiore dell’Inghilterra e l’Inghilterra è peggiore dell’America, l’Unione Sovietica è peggiore di entrambi. L’uno è peggiore e più demoniaco dell’altro. Oggi, però, noi abbiamo a che fare con gli americani, questi malfattori. Il presidente americano deve sapere che è presso il popolo iraniano la più odiata delle persone. (...) Tutti i nostri problemi derivano dall’America. Tutti i nostri problemi derivano da Israele e Israele non è altro che l’America» [11].
Le posizioni antiamericane e antisraeliane di Khomeini diventarono sempre più radicali durante l’esilio. L’ayatollah, ad esempio, in un discorso del febbraio 1978, giudicava il Libano, l’Egitto e l’Iran paesi islamici guidati da governi corrotti e filoccidentali: «Gli Stati imperialisti, come l’America e la Gran Bretagna hanno fondato Israele», spiegava, «e abbiamo visto quale tipo di miseria hanno inflitto alla popolazione islamica e quali crimini hanno commesso attraverso Israele contro i musulmani, particolarmente contro gli sciiti. In Libano hanno inviato un loro agente, sottomettendo il paese al suo miserabile governo, in Egitto hanno incaricato un altro, di nome Sadat, che con ogni azione mira a favorire l’imperialismo. Poco tempo fa», conclude, «egli si è recato in Israele riconoscendolo ufficialmente e ha approvato tutto ciò che gli hanno detto. Anche lo scià dell’Iran ha sostenuto la necessità di riconoscere Israele. In effetti, fu proprio lui a riconoscerlo ufficialmente vent’anni fa. Egli concesse il pieno riconoscimento a uno Stato di infedeli, di ebrei, avversando con tale azione l’islam, il Corano, i governi musulmani e tutta la popolazione islamica» [12].
Se Khomeini, durante gli anni prerivoluzionari, aveva definito Stati Uniti e Israele come soggetti politici deviati e antislamici, dopo la rivoluzione li bollò anche come forze controrivoluzionarie. Secondo l’ayatollah, sia Gerusalemme che Washington erano fermamente contrarie ai principi della rivoluzione islamica e volevano a qualsiasi costo colpire la nuova Repubblica. Pertanto, i due principali nemici esterni del suo Stato ideale avrebbero dovuto essere fermati e per questa ragione, precisò in diverse occasioni, gli iraniani avrebbero dovuto restare uniti contro il nemico esterno.
Tuttavia l’attacco militare iracheno contro l’Iran nel 1980 garantì a Khomeini un nuovo nemico comune: il baatista antisciita Saddam Hussein. La retorica dell’ayatollah iraniano che accompagnò gli anni di guerra fu perciò incentrata sulla difesa dei valori rivoluzionari contro l’invasore iracheno sostenuto dai nemici americani. Fu quindi attraverso la creazione di nemici interni ed esterni che la rivoluzione islamica si consolidò.
3. La morte della Guida suprema nel 1989 condusse la Repubblica Islamica alla sua prima vera crisi valoriale e istituzionale. Come sostiene Max Weber, nel momento della morte di un leader carismatico, al fine di poter mantenere il sistema da questi creato vi sono soltanto due possibilità: la sua sostituzione con un nuovo leader che abbia lo stesso carisma oppure il trasferimento dell’ideologia del leader in un’istituzione quale una Chiesa oppure un partito [13]. In Iran, con la morte di Khomeini e in assenza di un altro leader carismatico in grado di rimpiazzarlo i vertici dello Stato decisero di promuovere la nomina dell’allora presidente della Repubblica, l’ayatollah Ali Khamenei, il quale riuscì a ottenere la maggioranza dei voti dell’Assemblea degli esperti, diventando la Guida suprema della Repubblica Islamica. Ma Khamenei, non avendo il carisma del proprio predecessore, non è riuscito a mantenere lo stesso consenso che Khomeini era riuscito a guadagnarsi.
Anche per questa ragione, la Repubblica Islamica, dopo aver firmato l’armistizio con l’Iraq nel 1988, appariva sempre più come un sistema politico ordinario che doveva fare i conti con la realtà quotidiana, contro la quale il sogno khomeinista si stava scontrando. Dopo pochi anni dalla morte dell’ayatollah iniziarono a verificarsi i primi casi di corruzione tra i vertici della Repubblica. Nel 1998, ad esempio, l’allora sindaco di Teheran, Qolamhossein Karbasci, vicino all’ex presidente Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, venne processato in diretta tv. Una serie di eventi simili iniziarono a ledere l’immagine dello Stato islamico khomeinista. Negli anni Duemila, sia sotto il governo del riformista Seyyed Mohammad Khatami sia sotto l’esecutivo di Mahmud Ahmadi-Nejad, i casi di corruzione finanziaria sono cresciuti e diventati oggetto di polemiche e dibattito pubblico.
Nel settembre 2012, ad esempio, 32 dirigenti e manager bancari iraniani sono stati arrestati con l’accusa di aver partecipato alla scalata della Banca Saderat, uno dei principali istituti statali iraniani. Il procuratore del Tribunale della Rivoluzione di Teheran ha illustrato i capi d’accusa nei confronti degli imputati chiedendo la pena capitale per cinque di loro.
Negli ultimi vent’anni, inoltre, è cresciuta in Iran la disuguaglianza sociale. Vi sono sempre più poveri e la classe media si trova in forte difficoltà. Secondo le ultime stime ufficiali, il tasso di disoccupazione è superiore all’11% [14], mentre l’inflazione supera il 25% [15]. Pertanto, la povertà, complici anche le sanzioni internazionali, è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi anni. Le disparità sociali e una corruzione evidente tra i vertici delle istituzioni hanno contribuito al disincanto degli iraniani per un modello che avrebbe dovuto tutelare proprio i diseredati contro i prepotenti.
Sul fronte economico le promesse di Khomeini non si sono mai avverate. Gli iraniani, sia negli anni Ottanta che dopo la morte della Guida suprema, hanno sempre dovuto far fronte alle spese per la fornitura di luce e acqua. Il petrolio non è stato mai distribuito gratuitamente, anzi i cittadini hanno tutt’ora problemi in alcune zone ad aver accesso al combustibile necessario, seppur a pagamento, a riscaldare le abitazioni. Inoltre, vi sono seri problemi con i carburanti, diventati un bene piuttosto caro: la Repubblica Islamica non ha sviluppato le tecnologie necessarie per la raffinazione.
Ma il disincanto per l’utopia della rivoluzione islamica non è provocato soltanto dai disagi economici. Il tradimento dei valori etici per i quali milioni di cittadini avevano preso parte alla rivoluzione contro lo scià ne costituisce un’altra rilevante motivazione. Khomeini accusava lo scià, ma ormai la Repubblica Islamica ha un tasso di corruzione maggiore di quello della monarchia Pahlavi.
Inoltre, la repressione esercitata sin dai primi anni dopo la rivoluzione nei confronti degli oppositori e di chi la pensava e ancora la pensa diversamente dai vertici ha contribuito in maniera ancor più rilevante alla disillusione di chi aveva creduto nelle parole dell’ayatollah Khomeini. Sono state migliaia le persone imprigionate, giustiziate, torturate o in qualche modo perseguitate nei trentaquattro anni di Repubblica Islamica per reati di opinione e per altri considerati politici dai tribunali. Da subito una parte degli iraniani rimase delusa dal progetto khomeinista, un’altra invece ha compreso gradualmente che lo Stato perfetto in realtà non sarebbe mai esistito, soprattutto dopo la morte della prima Guida suprema.
Le esecuzioni sommarie nei primi anni successivi alla rivoluzione, gli assassini politici contro oppositori e intellettuali e le repressioni del 1999, 2003 e 2009 contro giovani oppositori al governo non hanno favorito l’utopia khomeinista. Anzi, la violenza esercitata dalle istituzioni è il terzo fattore, dopo disuguaglianza sociale e corruzione, che ha contributo al disincanto degli iraniani.
Negli ultimi due decenni, si sono formati gruppi di potere, sia tra i religiosi che tra i militari (i pasdaran), i quali, soltanto per aver avuto qualche legame con il glorioso passato rivoluzionario, si spartiscono il potere e i beni del paese. Ormai il sistema è gestito da diverse oligarchie che controllano economia, finanza e potere politico, senza legami con i valori genuini della rivoluzione del 1979.
In Iran vi sono attualmente circa 50 milioni di giovani sotto i 34 anni che sono nati o nell’anno della rivoluzione o in quelli successivi. Si tratta di una generazione che non avendo vissuto quel momento non ha mai coltivato l’illusione dell’utopia khomeinista. È una generazione che non ha nemmeno vissuto, da adulta, la guerra Iran-Iraq.
Essa però ha visto in azione la polizia etica, creata su ordine dell’ayatollah Khomeini, ha vissuto la repressione sia in ambito socio-culturale che politico. Parliamo di una generazione che ha sviluppato nuovi ideali, come la separazione della religione dalla politica, la parità tra uomo e donna, la libertà di pensiero e di espressione, il rispetto dei diritti umani, la democratizzazione del paese. Idee e contenuti capaci di ispirare e unire le nuove generazioni che, sebbene divise in diverse correnti politiche, chiedono insieme la fine del dispotismo e l’istituzione di un nuovo sistema democratico.
Se l’ayatollah Khomeini tentò di rompere i legami con il passato persiano al fine di creare uno Stato islamico ideale, oggi buona parte delle nuove generazioni vuole ritornarvi, cercando, proprio nelle origini pre-islamiche, come nel buon governo di Ciro il Grande o nella filosofia zoroastriana, nuovi spunti capaci di portare alla creazione di uno Stato progressista e democratico. Se la Repubblica Islamica ha tentato di far convivere i principi islamici con quelli repubblicani, i giovani, al contrario, chiedono, come durante le manifestazioni dell’Onda verde nel 2009, la creazione di una repubblica iraniana (Jomhuri-e Irani) laica.
Note:
[1] R.M. KHOMEINI, Hokumat-e Eslami (Il governo islamico), Roma 1983, Centro culturale islamico europeo, p. 170.
[2] R.M. KHOMEINI, Sahife-ye Nur (I libri illuminati), Teheran 1980-1982, Centro culturale della Rivoluzione Islamica, vol. 13, p. 218.
[3] N. BOBBIO, N. MATTEUCCI, G. PASQUINO, Dizionario di Politica, Torino 2004, Utet.
[4] Sulla rivoluzione iraniana del 1979 si vedano: E. ABRAHAMIAN, Iran between Two Revolutions, Princeton. NJ. 1982, Princeton University Press; M. KAMRAVA, Revolution in Iran: The Roots of Turmoil, London-New York 1990, Routledge; S.A. ARJOMAND, The Turban for the Crown: The Islamic Revolution in Iran, New York-Oxford 1988, Oxford University Press.
[5] R.M. KHOMEINI, Hokumat-e Eslami, cit., pp. 70-71.
[6] R.M. KHOMEINI, Sahife-ye Nur, (I libri illuminati), cit., vol. 3, p. 64.
[7] R. M. KHOMEINI, «Beheshte Zahra’s Speech», (2/2/1979), in Islam and Revolution: Writings and Declarations of Imam Khomeini, trad. e cura di H. ALGAR, Berkeley 1981, Mizan Press, pp. 254-262.
[8] Sulla guerra tra Iran e Iraq si consultino in generale E. KARSH (a cura di), The Iran-Iraq War: Impact and Implications, London 1987, The Macmillian Publications; W.D. SWEARINGEN, «Geopolitical Origins of the Iran-Iraq War», Geographical Review, vol. 78, n. 4,1988, American Geographical Society, pp. 405-416; R. TAKEYH, «The Iran-Iraq War: A Reassessment», Middle East Journal, vol. 64, n. 3, 2010, Middle East Institute, pp. 365-383.
[9] R.M. KHOMEINI, Sahife-ye Nur, vol. l6, pp. 211-212.
[10] R.M. KHOMEINI, «The Shah and Israel: The Root of People’s Suffering», (3/6/1963), in Kousar: An Anthology of the Speeches of Imam Khomeini, Teheran 2002, The Institute for the Compilation and Publication of the Works of Imam Khomeini, 3 voll., vol. 1, p. 122.
[11] R.M. KHOMEINI, «The Disclosure of the Revival of the Capitulation Bill by the Shah and His Parliament», (26/10/1964), in Kousar: An Anthology of the Speeches of Imam Khomeini, cit., vol. 1, p. 227.
[12] R.M. KHOMEINI, «In Commemoration of the First Martyrs of the Revolution», in Islam and Revolution, Writings and Declarations of Imam Khomeini, cit., p. 214.
[13] A tal proposito si consultino in generale M. POPPER, «The Development of Charismatic Leaders», Political Psychology, vol. 21, n. 4, 2000, pp. 729-744; CJ. FRIEDRICH, «Political Leadership and the Problem of the Charismatic Power», The Journal of Politics, XXIII, 1, 1961, International Society of Political Psychology, pp. 3-24.
[14] www.payvand.com/news/13/feb/1109.html
[15] www.payvand.com/news/13/mar/1018.html