Thomas L. Friedman, la Repubblica 12/9/2013, 12 settembre 2013
L’HITLER MEDIORIENTALE E IL CHURCHILL CHE NON C’È
Se siete cittadini americani e siete confusi e preoccupati di fronte alla prospettiva che il nostro Paese venga risucchiato in una guerra civile senza soluzione, in Siria, avete ragione: significa che state dedicando attenzione al problema. Ma se siete un deputato o un senatore e siete ancora in dubbio se concedere o no al presidente Obama l’autorità per dissuadere con la forza il presidente siriano Bashar al-Assad dal tornare ad assassinare centinaia dei suoi stessi concittadini con gas velenosi, in questo momento ha senso prendersi una pausa di riflessione: anche in questo caso significa che state dedicando attenzione al problema.
Negli ultimi due giorni è venuta a crearsi una situazione nuova, con l’offerta russa (abbracciata da Obama, da tutti i nostri maggiori alleati e dalla Cina, ma per il momento accettata solo in modo vago dal governo di Damasco) di mettere sotto il controllo della comunità internazionale tutto l’arsenale di armi chimiche della Siria. Non facciamoci illusioni: c’è la concretissima possibilità che russi e siriani stiano semplicemente prendendo tempo, e che alla fine facciano marcia indietro; e anche se gli uni o gli altri (o gli uni e gli altri) fanno sul serio, ci sarebbero comunque enormi ostacoli logistici e politici prima di riuscire a mettere in sicurezza in tempi rapidi tutte le armi chimiche siriane. Una parte di me si domanda: c’è qualcuno che ha ragionato a fondo su tutta la faccenda?
Ma tutto il resto di me vuole riconoscere che se – un grosso se – la Siria consegnasse davvero il suo arsenale di armi chimiche, questa crisi immediata si concluderebbe in modo positivo. Il tabù mondiale sull’uso di gas velenosi verrebbe mantenuto e l’America non verrebbe risucchiata nell’inferno siriano.
In questo contesto, penso che sia il caso che Obama e il Congresso minaccino di mettere in programma una votazione per ratificare la minaccia di Obama di ricorrere alla forza – nel caso siriani e russi dimostrassero di non essere in buona fede – ma per il momento di non fissare nessuna data per la votazione. (Questo in sostanza era il messaggio del presidente nel suo discorso dell’altra sera). Obama, minacciando di minacciare, conserverebbe un’arma di pressione per dissuadere siriani e russi dal non dare seguito concreto a un eventuale accordo, senza però essere costretto a mettere alla prova la reale volontà del Congresso di tradurre in pratica quella minaccia. Perché se i parlamentari americani negassero l’autorizzazione all’uso della forza, russi e siriani non avrebbero nessun incentivo a impegnarsi realmente.
Tutto questo potrà sembrarvi incredibilmente contorto e confuso, e lo è. E se è vero (bisogna ammetterlo) che Obama e i suoi collaboratori hanno contribuito a complicare la faccenda con dichiarazioni decisamente troppo affrettate e improvvide, è vero anche che c’è una ragione strutturale di fondo: Obama deve misurarsi con un mondo arabo diversissimo da quello con cui hanno fatto i conti tutti i suoi predecessori.
Fino al 2010, il Medio Oriente arabo era relativamente stabile da 35 anni. L’effetto combinato della guerra fredda, dell’ascesa di dittatori che grazie ai proventi del petrolio erano riusciti a costruire forti Stati di polizia e la pace tra Egitto e Israele avevano imposto l’ordine.
Ma dal 2010 in poi, la convergenza di fattori come l’esplosione della rabbia delle masse arabe, la mancanza di lavoro, il degrado ambientale, la scarsità di acqua, il calo dei proventi del petrolio e la rivoluzione dell’informazione hanno mandato gambe all’aria governi che un tempo apparivano solidi – Siria, Egitto, Tunisia, Iraq, Libia e Yemen – costringendoci a fare i conti con interrogativi nuovi e molto scomodi, non semplicemente con l’uso della forza.
Uno degli interrogativi di cui sopra è: certe cose sono vere anche se George W. Bush era convinto che lo fossero? Nessuno, falco o colomba, ha la minima voglia di vedere le nostre truppe in Siria, in nessun caso. Io sono fra questi. L’unico problema è che è impossibile immaginare una soluzione al conflitto siriano senza qualche forza esterna che invii truppe sul campo. Quando si arriva a un collasso statale e sociale come quello a cui è arrivata la Siria, e in una società multitribale e multiconfessionale come la Siria, non esiste più nessuna fiducia per governare e gestire un’alternanza al potere. E allora serve una levatrice, o un Mandela, o un esercito che goda della fiducia della popolazione (all’egiziana) per arbitrare la transizione a un nuovo ordine. E dal momento che la Siria non ha né un Mandela né un esercito che goda della fiducia della popolazione, le servirà una levatrice esterna. Posso ben capire che i volontari per tale compito non abbondino, ma il Consiglio di sicurezza dell’Onu alla fine dovrà affrontare queste realtà, se non vuole che la Siria diventi l’Afghanistan del Mediterraneo.
Ci sono anche un po’ di domande scomode che dobbiamo porre ai nostri alleati arabi. Durante la guerra fredda, la nostra paura del comunismo e della dipendenza dal petrolio ci induceva a schierarci con chiunque combattesse contro i sovietici. Non abbiamo mai interrogato i nostri alleati arabi su quali valori promuovessero in casa propria.
Bene, ecco una domanda che dovremmo cominciare a porci: ci sono migliaia di giovani arabi e musulmani che vengono da ogni dove, perfino dall’Australia, per unirsi alle milizie jihadiste che combattono per creare uno Stato islamista sunnita in Siria. Ma quanti giovani arabi e musulmani sono affluiti nel Paese mediorientale per combattere insieme agli elementi più decorosi dell’Esercito libero siriano per creare una Siria multiconfessionale, pluralistica e democratica, cioè la Siria che speriamo e immaginiamo che nasca? Nessuno, a quanto si legge. Armi sì, ma non persone pronte a mettere in gioco la vita.
Io sono felice che i leader dei Paesi del Golfo ci diano pubblicamente il loro sostegno (nella maggior parte dei casi sono dei moderati, nel contesto mediorientale), ma tutti sanno che in quegli stessi Paesi moschee e organizzazioni di beneficenza stanno finanziando i jihadisti. Attenzione: ora che sovietici e oleodotti non ci sono più, gli americani di oggi non intendono spendere sangue e soldi per difendere posti e persone, nel mondo arabo, che non condividono i nostri valori e non sono pronti a sacrificarsi per essi. Non possiamo più permettercelo, e non abbiamo più bisogno di farlo.
Perciò riconosciamo a Obama il merito di aver difeso un principio importante in una regione caotica. Ma riconosciamo qualche merito anche al popolo americano, che sta dicendo ai nostri leader una cosa importante: è difficile continuare a fronteggiare gli Hitler del Medio Oriente se dall’altra parte non c’è nessun Churchill.
©2013 The New York Times. Distributed by The New York Times Syndicate
Traduzione di Fabio Galimberti