Marco Belpoliti, La Stampa 12/9/2013, 12 settembre 2013
NON ACCAVALLARE LE GAMBE SE SEI IN PARLAMENTO
«Che fai, mi cacci?». Gianfranco Fini in piedi punta l’indice verso l’altro cofondatore del Popolo delle Libertà, Silvio Berlusconi. Su quello che resta della statua di Saddam Hussein, abbattuta a Baghdad, sale un giovane che imita il gesto dell’ex presidente: braccio destro alzato e mano aperta. Papa Benedetto XVI appena eletto sul balcone di San Pietro solleva le mani giunte e le rivolge verso la folla sollevandole sopra la testa, come si usa in India: namasté. Willy Brandt, in visita ufficiale in Polonia, s’inginocchia improvvisamente e intreccia le mani davanti al monumento nel ghetto ebraico di Varsavia. Siamo continuamente colpiti dai gesti degli altri, sconosciuti e noti, attori, cantanti o politici che siano: le corna di Leone e di Berlusconi, il medio di Bossi, la linguaccia dei Rolling Stones, le mosse di Elvis Presley. Ma che cos’è esattamente un gesto? Secondo un testo del XIV secolo sarebbe «un movimento del corpo, in particolare delle mani, delle braccia, del capo che accompagna e rende più espressiva la parola ed esprime uno stato d’animo o un pensiero».
Cosa significano i gesti? Costituiscono un linguaggio? E se sì, in che rapporto starebbero con le parole che li descrivono o li interpretano? Claudio Franzoni in un libro magnifico, Da capo a piedi. Racconti del corpo moderno (Guanda, p. 232, e 20), prova a rispondere a tutti questi interrogativi. Facciamo un esempio. Novembre 2002, Nanni Moretti sta assistendo a una seduta della Camera dei deputati dalla gradinata riservata al pubblico, siamo all’epoca dei «girotondi». Braccia conserte, mano sinistra che gli regge il capo, gambe accavallate. Un commesso s’avvicina e gli ingiunge di cambiare postura: accavallare le gambe in quel luogo è sconveniente. Nel regolamento del Parlamento non c’è alcun divieto al riguardo; lo stesso trattamento capita, tempo dopo, a una classe di liceali. Perché sono stati ripresi? La «maleducazione» di quel gesto ha una sua tradizione che rimonta molto all’indietro. Plinio in un passo parla di «maleficio» (veneficium) riguardo alla postura dell’accavallare; nell’età cristiana, poi, viene interdetto, tanto che il rifiuto della prima versione del San Matteo e l’Angelo di Caravaggio, nella Cappella Conterelli in San Luigi dei Francesi, da parte degli ecclesiastici, sarebbe effetto delle gambe accavallate del santo seduto in quella posizione e «coi piedi rozzamente esposti al popolo», scrive un contemporaneo. Se si osservano le fotografie di uomini politici attuali, da Berlusconi a Clinton e a Prodi, s’incontrano tuttavia molte gambe accavallate.
Lo zoologo Desmond Morris in un suo libro, L’animale donna (Mondadori), ha descritto sette forme base d’intreccio delle gambe, mentre Truffaut, in L’uomo che amava le donne , racconta come il protagonista del film è sedotto da una sconosciuta che gli siede accanto al cinema per via del gesto di accavallare le gambe. Insomma, quello che i co m m ess i d el Parlamento italiano hanno intravisto nel gesto di Moretti, suggerisce Claudio Franzoni, è il suo significato erotico, facendo slittare l’origine femminile sul maschile. Che si tratti di un richiamo erotico lo ricorda ancora la celebre scena di Basic Instinct , dove Sharon Stone accavalla scandalosamente le gambe. In realtà, scrive Franzoni, studioso del mondo classico, l’oscillazione dei giudizi riguardo questa postura ha che fare con la sostanziale ambiguità del corpo e della sua capacità di caricarsi di valori e significati differenti: dipende molto dai contesti culturali e sociali.
I gesti non sono facilmente interpretabili o, se lo sono, appaiono, caso per caso, legati a dei codici: paese che vai, gesti che trovi. Franzoni racconta un altro gesto: tenersi per mano. Nel luglio del 2010 in una Bustina Umberto Eco ipotizza che le coppie eterosessuali non si tengano più a braccetto, ma per mano, e che il fenomeno sia limitato alle «classi inferiori». Ipotesi vera per metà, scrive l’autore di Da capo a piedi , poiché per molto tempo il tenersi per mano non ha coinciso con l’idea di coppia. In Occidente era, ed è, un gesto d’affetto praticato dalle adolescenti femmine, mentre in Oriente è diffuso tra i maschi, ma ci sono anche foto di commilitoni italiani che si tengono per mano davanti all’obiettivo all’inizio del Novecento. Poi di colpo la mano nella mano indica una relazione amorosa: Gunther Sachs e Brigitte Bardot sono uno dei primi esempi. Siamo negli Anni Sessanta e Settanta, Pasolini interviene per stigmatizzare il gesto; il nuovo romanticismo sarebbe, secondo il regista e poeta, quello della coppia consumista: «Tenendosi per mano vanno poi dove? Alla Rinascente, alla Upim». Non lo fanno solo le «classi inferiori», si usa anche nelle classi dirigenti; Tony Blair, ministri francesi e politici italiani (Berlusconi, Brunetta e Sandro Bondi) lo esibiscono: un gesto giovanilistico che gli ex-giovani continuano nella mezza età, e persino nella vecchiaia. Il libro di Franzoni esamina molti gesti e posture di papi, uomini politici, attori, attrici (molto belle le pagine sui gesti popolari nei film di Pasolini), e di gente comune, ne descrive l’origine e lo sviluppo, e anche in vari casi la scomparsa (fare l’occhiolino, il baciamano, marameo, salutare alzando il cappello, ecc.), con una convinzione di fondo: tra il piano corporale e quello del linguaggio - le parole che dicono i gesti - non c’è una perfetta sovrapposizione.
La lettura dei gesti non è mai chiara e univoca, semmai è vero il contrario. I gesti costituiscono una sorta di «lato oscuro» della nostra cultura individuale e collettiva. Uno studioso francese, Jean-Loup Rivière, li ha definiti «memoria di quell’atto arcaico che collega l’uomo alla sua animalità e al tempo stesso lo allontana da essa». L’essenza del gesto è la ripetizione: senza questa reiterazione quasi non esiste, o almeno non può essere compreso. Gilles Deleuze ha scritto: «Il corpo non è mai al presente». Nel gesto il nostro corpo parla senza far ricorso al linguaggio, ma non è detto che posture e movimenti siano traducibili perfettamente in parole. Franzoni lo dimostra con intelligenza e erudizione.