Cesare Martinetti, La Stampa 12/9/2013, 12 settembre 2013
IN VALSUSA PROVE DI TERRORISMO
Si può essere No-Tav o Sì-Tav, si può anche coltivare una rispettabile e pragmatica equidistanza, ma c’è una cosa che bisogna sapere: in Valsusa il terrorismo c’è già. In una forma inedita, tra l’intimidazione ambientale di stampo mafioso e il cecchinaggio individuale di marca pre-brigatista, tra la opprimente Corleone di Riina e i caldissimi picchetti delle fabbriche nei primi Anni Settanta. Nei confronti delle cose (cantieri, macchine e macchinari, forze di polizia) si esercita con azioni militari. Nei confronti delle persone (che lavorano nel o intorno al cantiere) con minacce continue e ossessive.
L’ultima storia è di ieri. Tre noti militanti No-Tav arrestati per minacce a una cronista, circondata, minacciata, costretta a consegnare documenti e cellulare. I tre, che erano spalleggiati da una ventina di compagni, l’hanno accompagnata all’auto, di cui avevano fotografato la targa, e costretta ad andarsene. I tre sono agli arresti domiciliari, grazie al decreto svuota-carceri che risparmia a Gianni Vattimo un nuovo pellegrinaggio di solidarietà alle Vallette. Ma, come si dice, la vicenda segna un altro salto di qualità. Non che sia più grave minacciare un giornalista di un operaio del cantiere. Ma è diverso e incide su un’altra libertà civile: quella dell’informazione.
Il vero salto di qualità militare c’è stato invece nella notte di domenica: quattro betoniere, due camion, un’autogru incendiate, con le fiamme che lambiscono il deposito di gasolio e fanno evocare una possibile ecatombe. Poco meno di un milione di danni, con un effetto intimidatorio sui lavoratori incalcolabile. Il dodicesimo attentato - il più grave - da luglio.
E tutto questo dentro quel clima di intimidazione diffuso che colpisce tutti quelli che hanno a che vedere con il cantiere, da chi ci lavora, agli albergatori che ospitano i poliziotti, ai camionisti che transitano per la valle e che magari non hanno nulla a che vedere con il/la Tav. Capita che vengano fermati e che i documenti loro e di viaggio vengano controllati. C’è insomma un antistato che esercita forme di controllo del territorio e si propone di cambiare il corso delle cose con un insieme di azioni che sono oggettivamente eversive.
Ecco, questo è lo stato delle cose che sta al di là della legittima e civile contestazione locale all’opera che nel corso di questi anni si è trasformata in un magnete di attrazione per tutte le rivendicazioni e le rivolte: il/la Tav è diventato il totem contro cui scagliare ogni risentimento collettivo e individuale, politico ed esistenziale, un ring dove esercitare sperimentazioni accademiche e misurare un dibattito tanto in voga: sviluppo o decrescita?
Noi pensiamo che, garantite tutte le salvaguardie possibili, ambientali e locali, democratiche e funzionali, l’opera vada fatta per tenere lo sguardo lungo, per rimanere agganciati alla trama della rete europea che si disegna per i decenni a venire. Quello sguardo lungo che ebbe Cavour dando il via al traforo del Fréjus e senza il quale non l’Italia, ma Torino e il Piemonte resterebbero ai margini del sistema Europa che altrove avanza, eccome.
Ma non è questo il punto di oggi che ci pare invece una necessaria presa di coscienza di cosa sta accadendo in Valsusa e che non ha nemmeno niente a che fare con quelle forme organizzative dal basso che appartengono a una retorica localistica del territorio. Siamo ormai al di là di tutto questo, c’è una dinamica che è cresciuta dietro l’opposizione dei movimenti, anche grazie all’ambiguità di una parte di essi o dei capi. Oggi anche loro ne sono vittime: il terreno di confronto è torbido e avvelenato.
I paragoni storici sono quasi sempre sbagliati. Certo che non ci sono i movimenti né le organizzazioni politiche degli Anni Settanta, non c’è un conflitto riconoscibile, non c’è una prospettiva - per quanto illusoria - da raggiungere. Ma tutta quella roba là giace in una memoria collettiva e forse non solo. Sulla rete - non più su volantini ciclostilati - si trovano documenti che ricalcano schemi e prosa delle vecchie «risoluzioni strategiche». Ce n’è una «postata» a luglio e intitolata «Lavanda, note di viaggio contro il Tav», dove sono indicati gli obbiettivi e che sono esattamente quelli colpiti in questo fine d’estate di fuoco.
Di fronte a tutto questo il discorso pubblico italiano balbetta. Il conformismo No-Tav è di moda, il preambolo ad ogni intervista in cui si prende pur timidamente le distanze dalla violenza è: «premesso che si tratta di un’opera inutile…». Il che è pure un argomento legittimo, ma buttato lì così in quei contesti fa l’effetto di una strizzata d’occhio ai violenti. I professori e gli anziani rivoluzionari che giustificano il sabotaggio fanno notizia e fanno sorridere ma anche pensare ad un vecchio slogan di quegli anni: né con lo Stato né con le Br. Possibile che questo Paese sia eternamente condannato alla caricatura di se stesso? C’è qualcuno che ha la faccia di dire che in Valsusa il terrorismo c’è già e bisogna evitare di passare alla successiva e tragica caricatura: quella dei colpi di pistola?