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 2013  settembre 11 Mercoledì calendario

APPUNTI PER GAZZETTA - IL PAPA SCRIVE A SCALFARI


REPUBBLICA.IT
PREGIATISSIMO Dottor Scalfari, è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.
La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’Enciclica Lumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristo coloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce "un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth".
Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù. Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo.
Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.
La prima circostanza - come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica - deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità. È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.
La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore - vi si sottolinea - "risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti" (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.
La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore. Senza la Chiesa - mi creda - non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità.
Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.
Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso - o se non altro mi è più congeniale - andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazareth.
Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazareth giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.
Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo "scandalo" che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria "autorità": una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è "exousia", che alla lettera rimanda a ciò che "proviene dall’essere" che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire - egli stesso lo dice - dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa "autorità" perché egli la spenda a favore degli uomini.
Così Gesù predica "come uno che ha autorità", guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona... cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: "Chi è costui che...?", e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla constatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce. Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.
Ed è proprio allora - come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco - che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.
La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva "caro cardo salutis", la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce. Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.
Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.
L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione.
Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.
Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.
Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che - ed è la cosa fondamentale - la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.
In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità "assoluta", nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: "Io sono la via, la verità, la vita"? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa. Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione... assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire.
Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio - questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! - non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la "R" maiuscola. Gesù ce lo rivela - e vive il rapporto con Lui - come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra - e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno - , l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di "cieli nuovi e terra nuova" e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà "tutto in tutti".
Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà "a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore" (Lc 4, 18-19).
Con fraterna vicinanza
Francesco

PAROLIN E IL CELIBATO DEI PRETI
CORRIERE DI STAMATTINA
GIAN GUIDO VECCHI
CITTÀ DEL VATICANO — Il celibato sacerdotale? «Non è un dogma della Chiesa e se ne può discutere perché è una tradizione ecclesiastica». Le parole dell’arcivescovo Pietro Parolin, neo Segretario di Stato vaticano in carica dal 15 ottobre, non significano certo che la Chiesa stia pensando di abolire quella tradizione che «risale ai primi secoli» e della quale lo stesso Parolin difende il valore, «non si può dire, semplicemente, che appartiene al passato». Però è importante il fatto stesso che il suo più stretto collaboratore parli di «una grande sfida per il Papa», poiché «egli possiede il ministero dell’unità e tutte queste decisioni devono essere assunte per unire la Chiesa, non per dividerla». Che dica: «È possibile parlare e riflettere e approfondire quei temi che non sono articoli di fede e pensare ad alcune modifiche, però sempre al servizio dell’unità e secondo la volontà di Dio».
Con i tempi (lunghi) della Chiesa, l’idea di «modifiche» non è più un tabù. Parolin, nunzio a Caracas, parlando al quotidiano venezuelano El Universal pondera le parole. Dice che si tratta di seguire «la volontà di Dio e la storia della Chiesa» così come «l’apertura ai segni dei tempi», ad esempio «la scarsezza del clero». Di per sé che il celibato non sia un dogma è un dato di fatto. Eppure, nel 2006, bastò che il cardinale Cláudio Hummes ricordasse la stessa cosa perché dal Vaticano fioccassero precisazioni imbarazzate. Era stato appena nominato prefetto del clero e la cosa, si disse, gli costò un certo isolamento in Curia. Ma i tempi cambiano, il cardinale cappuccino è un grande amico di Bergoglio (fu lui ad abbracciarlo nella Sistina e dirgli: «Ricordati dei poveri!») e chi dice queste cose non rischia più l’isolamento.
Del resto il neo Segretario di Stato parla di riforme, dei cambiamenti che riprendono il Concilio e trovano «resistenze» ma «non possono mettere in pericolo l’essenza della Chiesa»: e dice che se la Chiesa «non è una democrazia» — alla fine decide il Papa — «è una buona cosa che in questi tempi ci sia spirito più democratico, nel senso di ascoltare attentamente», una «conduzione collegiale dove possono esprimersi tutte le istanze». Propri ieri il Papa ha riunito i capi dicastero in vista della riunione del «gruppo» cardinalizio che a ottobre affronterà la riforma di Curia.
Ma quali potrebbero essere le «modifiche» da discutere sul celibato? C’è un’idea che si fa strada da quando nel 2009 Benedetto XVI istituì degli «ordinariati» per gli anglicani che tornavano nella Chiesa cattolica, compresi i sacerdoti sposati. Di per sé, non una novità assoluta: nella Chiesa cattolica esistono già dei preti sposati. La disciplina del celibato vale per la Chiesa latina, ma in quelle cattoliche orientali non c’è obbligo. C’è quindi la possibilità che in futuro si vada verso una doppia disciplina anche nella Chiesa latina. Magari con le stesse regole: solo i celibi possono essere vescovi.
Del resto grandi voci nella Chiesa hanno aperto il tema. Il cardinale Carlo Maria Martini parlò del celibato come di «un grande valore e un segno evangelico» ma diceva: «Non per questo è necessario imporlo a tutti». Propose «la possibilità di ordinare viri probati», ovvero «uomini sposati che abbiano esperienza e maturità». L’ipotesi era stata bocciata nel sinodo del 2005, altre voci importanti si aggiunsero. Lo stesso Bergoglio parlò del tema da cardinale, nel libro Papa Francesco. Un testo in cui afferma d’essere «pienamente convinto» che "il celibato vada conservato». Ma dice anche che «se la Chiesa dovesse rivedere tale norma» non lo farebbe «spinta dalla scarsità» di vocazioni e comunque «non sarebbe una regola valida per tutti»: «Tratterebbe la cosa come un problema culturale di un luogo specifico, non in modo universale ma come un’opzione personale».
Gian Guido Vecchi

I CONVENTI AGLI IMMIGRATI
CITTÀ DEL VATICANO — La sua forza è la credibilità. Papa Francesco arriva nel pomeriggio, poco prima delle tre e mezzo, con la sua Ford Focus targata «Scv00919», una normale macchina blu che sfila nel traffico romano senza staffette né segretario personale né scorta, solo accanto a sé il comandante della Gendarmeria Domenico Giani, scende e benedice una donna incinta. Nel complesso della Chiesa del Gesù, la «chiesa madre» dei gesuiti, trova posto il Centro Astalli, che l’allora padre generale Pedro Arrupe volle come sede italiana del Jesuit Refugee Service, creato nel 1980 per aiutare i rifugiati: aveva visto la tragedia dei boat people vietnamiti. Tragedie che continuano, per Francesco è come il seguito del viaggio di luglio a Lampedusa, quando denunciò la «globalizzazione dell’indifferenza» e scandì: «Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi».
Ma adesso c’è ancora di più: un appello, quasi una denuncia rivolta all’interno della Chiesa, in particolare agli istituti di religiosi e suore. Lo fa alzando lo guardo dal testo scritto: «Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare soldi! I conventi vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati!».
Francesco invoca «solidarietà, quella parola che «fa paura al mondo più sviluppato, per loro è una parolaccia». Scandisce che «l’integrazione è un diritto». Si rivolge agli immigrati rifugiati, dopo averli salutati e aver parlato con loro uno ad uno, «molti di voi sono musulmani, di altre religioni», e sillaba: «Non dobbiamo avere paura delle differenze! La fraternità ci fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti!». Invita a «guardare negli occhi» queste persone. Un discorso memorabile che tuttavia, come sempre, ha al centro l’esempio. Prima che alla società, è alla stessa Chiesa che parla Francesco. «Per tutta la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia non vengano affidate solo a degli "specialisti"». Formazione dei sacerdoti, parrocchie, movimenti. E poi arriva agli istituti religiosi. A Roma e dintorni, in tutta Italia ci sono edifici costruiti ai tempi in cui la crisi delle vocazioni non esisteva. «Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità, nelle case, nei conventi vuoti». Certo, «non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche coraggio».
Come sempre, il Papa invita la Chiesa a «superare la tentazione della mondanità spirituale per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli ultimi». Nel lungo intervento di Francesco c’è una frase decisiva anche dal punto di vista teologico: «I poveri sono anche maestri privilegiati della nostra conoscenza di Dio». Bergoglio, il Papa che vuole «una Chiesa povera e per i poveri», sta lavorando proprio a una enciclica sui poveri. Ai giovani della Gmg indicava del resto le Beatitudini evangeliche come riferimento essenziale. Forse già oggi riceverà in Vaticano il teologo peruviano Gustavo Gutierrez, padre della teologia della liberazione.
Servire, accompagnare, difendere: il discorso è scandito dalle tre parole che sono «il programma di lavoro dei gesuiti». Il Papa porta un mazzo di fiori alla tomba di padre Arrupe. Solo nell’ultimo anno, l’Astalli ha aiutato 34 mila immigrati, 21 mila a Roma. Prima accoglienza, sostegno legale, campagne. Perché «la carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente, non basta un panino». Ci vuole «giustizia», integrazione, difesa dei diritti: «Quante volte leviamo la voce per difendere i nostri diritti, ma quante volte siamo indifferenti verso i diritti degli altri!». Padre Giovanni Lamanna, presidente del centro, dice: «In Italia paghiamo l’aver criminalizzato l’arrivo delle persone, il reato di clandestinità». C’è anche Carol, una rifugiata dalla Siria, un’insegnate che prende la parola per parlare del futuro dei bambini nel suo Paese, del diritto all’educazione. La Chiesa sta dispiegando anche la diplomazia degli aiuti umanitari. Alla fine Francesco invita tutti a bussare e chiedere: «Come posso dare una mano?». Da immigrati e volontari si congeda così: «Grazie per difendere la vostra, la nostra dignità umana».
G. G. V.

CAMBIAMENTI ALL’APSA
ROMA — Grandi cambiamenti in vista non solo per gli stabili dei conventi vuoti (che dovrebbero ospitare gli immigrati e non diventare alberghi), ma anche per l’Apsa, l’amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica, cioè del Papa e del Vaticano.
Il 4 ottobre, il Papa ad Assisi farà un discorso molto atteso sulla «spoliazione» della Chiesa. E quasi in contemporanea con l’uscita di scena del segretario di Stato Tarcisio Bertone (15 ottobre) lasceranno l’incarico i delegati delle due sezioni in cui l’Apsa è articolata. Probabilmente, Francesco vuole modellare con nuove nomine l’organismo, secondo la sua visione dei beni della Santa Sede.
La prima sezione dell’Apsa, quella ordinaria, gestisce i beni immobili di proprietà del Vaticano (il cui valore supera i 400 milioni di euro, e che si estende gran parte in Italia, ma anche in Francia, in Svizzera, nel Regno Unito ed in particolare al centro di Londra). È stata diretta dal 15 ottobre del 2007 da monsignor Massimo Boarotto (già a Propaganda Fide, dove aveva lavorato per 21 anni).
Sabato scorso Boarotto è stato ricevuto da Papa Francesco che lo ha ringraziato del lavoro svolto e gli ha regalato un calice: un dono per la sua nuova attività pastorale. Tornerà a Verona a fare il parroco.
Poi sarà la volta di Paolo Mennini, delegato della sezione straordinaria dell’Apsa, quella che gestisce gli investimenti in titoli, dove lavorava come contabile monsignor Nunzio Scarano, arrestato il 28 giugno scorso, attualmente in regime di detenzione presso la sezione carceraria dell’ospedale di Salerno. Mennini è alle soglie della pensione, avendo 70 anni, è figlio di Luigi, numero due dello Ior, ai tempi dell’arcivescovo Marcinkus, e fratello del nunzio apostolico a Londra Antonello Mennini. Dopo lo Ior, quindi è la volta della «seconda banca» di San Pietro, l’Apsa, appunto, la cui attività è molto meno conosciuta e che svolge anche le funzioni di banca centrale. Con il motu proprio del Papa all’inizio di agosto, anche l’Apsa è stata sottoposta al controllo dell’Aif, l’Autorità per l’informazione diretta da René Bruhelart. Come il Comitato Moneyval, è tornato a chiedere nell’ultimo rapporto annuale pubblicato a Strasburgo due mesi fa, nel luglio 2013.
M.Antonietta Calabrò

PAOLO RODARI SU REP DI DOMENICA
CITTÀ DEL VATICANO
— Un testo limato fino all’ultimo per ricordare ai potenti della terra che «la guerra porta solo morte» e per implorare il dono della pace. È l’omelia pronunciata ieri da Francesco in una piazza San Pietro gremita di centomila persone durante la veglia di preghiera per la pace. Il Papa ha pronunciato un discorso ponderato fino alle virgole e che fa ritornare con la memoria al tempo di Giovanni XXIII, l’opera di mediazione con le due superpotenze che si erano spinte a un passo dalla guerra atomica per la crisi missilistica a Cuba nel 1963. Fu uno dei momenti più drammatici del XX secolo, uno spartiacque che in Vaticano inaugurò la linea dell’Ostpolitik culminata con l’abbattimento del muro di Berlino da parte di Karol Wojtyla. Oggi è Francesco a sentire su di sé lo stesso peso per l’incombente conflitto mondiale in Siria. E a gridare «No alla guerra. Mai più violenza e scontro». E ancora, a braccio: «Penso solo ai bambini, soltanto a quello: ferma la tua mano!». Parole che richiamano tutti a una presa di responsabilità e che non vogliono in nessun modo sembrare filo-Assad. La sua è una condanna senza se e senza ma di ogni guerra nella quale, dice, «è sempre Caino a rinascere
». Ma non ci sono prese di posizione politiche. Tutta la veglia ha un profilo pastorale, spirituale ed ecumenico. In piazza, fra gli altri, c’erano anche fedeli musulmani. Dieci di loro, appena fuori le transenne, hanno pregato recitando dei versetti del Corano.
Certo, l’azione diplomatica non manca. Ancora ieri i nunzi apostolici nei Paesi caldi hanno cercato di percorrere ogni strada possibile per la mediazione. I vescovi degli Stati Uniti hanno lanciato un appello a Obama ricordando che l’attacco è «controproducente » e ha «il potenziale di aggravare una situazione già letale, con inevitabili conseguenze negative». Da Damasco è stato invece il nunzio Mario Zenari a dire che «sia nella tradizione cristiana che in quella musulmana il digiuno è sentito come un grande valore ed è quindi qualcosa che ci accomuna ». Nei giorni scorsi era stato direttamente il Papa a chiedere con forza che la comunità internazionale si risvegli «dall’inerzia » e attui una conferenza di pace per la Siria. Egli, pur condannando l’uso di armi chimiche, ha chiesto che gli Stati «abbandonino ogni vana pretesa di una soluzione militare».
Alla vigilia della festa della Natività della Madonna cara a cattolici, ortodossi e musulmani, il Papa ha voluto che venisse portata in piazza l’icona di Maria «Salus populi romani». Venerata dai romani, a lei il Papa ha chiesto il miracolo della pace. Perdono, dialogo e riconciliazione, sono le parole chiave dell’omelia di Francesco che ha detto: «Esci dai tuoi interessi che atrofizzano il cuore, guarda al dolore di tuo fratello e non aggiungere altro dolore, apriti al dialogo. Ricostruisci l’armonia, non con lo scontro ma con l’incontro. Finisca il rumore delle armi». E poi le parole di Paolo VI quando disse che «la guerra
è sempre un fallimento. Non più guerre, non più gli uni contro gli altri. La pace si afferma solo con la pace. È possibile uscire da questa spirale di morte? Possiamo imparare a percorrere la via della pace? », ha chiesto il Papa. E ancora: «Si, è possibile per tutti. Vorrei che da ogni parte della terra e ognuno di noi, dal più piccolo al più grande, ai rappresentanti delle istituzioni rispondessero: “Si, lo vogliamo”».
Un’intensa celebrazione di preghiera e digiuno per la pace si è tenuta ieri anche nella grande Moschea degli Omayyadi a Damasco. A presiedere la preghiera è stato il Gran Muftì di Siria, Ahmad
Badreddin Hassou, leader spirituale dell’islam sunnita, alla presenza di capi religiosi musulmani sunniti, sciiti, alawiti, ismaeliti, drusi e anche di rappresentanti di altre religioni, come ebrei e cristiani. Ha detto Ahmad Badreddin Hassou all’agenzia Fides: «Nella moschea degli Omayyadi, dove sono custodite le reliquie del profeta Giovanni Battista, luogo di pellegrinaggio comune per cristiani e musulmani, la nostra preghiera per la pace è unita con il Papa a Roma, in comunione con tutti credenti di altre denominazioni e con tutti gli
uomini di buona volontà».

TRE LIBRI DEL PAPA (SULLA STAMPA DI STAMANI)
Educazione, i nuovi libri di Francesco
“Non rinunciamo alle nostre utopie”
PAPA FRANCESCO
Escono oggi tre libri di Papa Francesco sull’educazione, che costituiscono lo sviluppo di un’unica riflessione sul tema. Questi i titoli dei volumi (tutti pubblicati da Bompiani): “Nel cuore dell’uomo. Utopia e impegno”; “Scegliere la vita. Proposte per tempi difficili” e “Disciplina e passione. Le sfide di oggi per chi deve educare”. Accanto pubblichiamo uno stralcio della nota che chiude il terzo volume.
Di fronte alla cultura della frammentazione, come alcuni hanno voluto definirla, o della “non integrazione”, ci viene chiesto, a maggior ragione nei momenti difficili, di non favorire coloro che intendono capitalizzare il risentimento, l’oblio della nostra storia condivisa, o coloro che godono nell’indebolire i legami, manipolare la memoria e vendere utopie a buon mercato.
Per una cultura dell’incontro, dobbiamo uscire dai rifugi culturali e rivolgerci alla trascendenza che dà fondamento, costruire un universalismo integrante che rispetti le differenze; abbiamo anche bisogno di coltivare un dialogo fertile per un progetto condiviso, di esercitare l’autorità al servizio dello sviluppo di un progetto comune (il bene comune), di aprire spazi d’incontro e riscoprire la forza creativa dell’elemento religioso all’interno della vita dell’umanità e della sua storia, una riscoperta che abbia come referente l’uomo. (...)
Dobbiamo addentrarci in questa cultura della globalizzazione attraverso la prospettiva dell’universalità. Invece di essere atomi che acquisiscono significato solo nel tutto, dobbiamo integrarci in una nuova organicità vitale di ordine superiore che ci includa, senza però annullarci. Amalgamarci in armonia a qualcosa che ci trascende, senza rinunciare a noi stessi. E non lo si può fare con il consenso, che livella verso il basso, ma attraverso il dialogo, il confronto di idee e l’esercizio dell’autorità. (...) Occorre instaurare, in ogni ambito, un dialogo serio, adeguato e non meramente formale o sotto forma di diversivo. Un interscambio che distrugga i pregiudizi e divenga fecondo in funzione della ricerca comune, della condivisione, e che comporti un tentativo d’interazione delle volontà a favore di un lavoro comune o di un progetto condiviso. Non dobbiamo rassegnarci a rinunciare alle nostre idee, utopie, proprietà o diritti, ma dobbiamo soltanto rinunciare alla pretesa che siano unici e assoluti. (...)
È sempre necessaria una guida, ma questo vuol dire partecipare alla formalità che dà coesione al corpo, in modo che la sua funzione non sia fare i propri interessi, ma mettersi totalmente al servizio. Affinché la forza che tutti noi abbiamo dentro, che è legame e vita, possa manifestarsi, è necessario che tutti, e in particolar modo chi tra noi riveste un importante ruolo politico, economico o un qualsiasi altro tipo d’influenza, rinuncino a quegli interessi, o all’abuso degli stessi, che prescindono dal bene comune che ci unisce; è importante assolvere, con serietà e coraggio, alla missione impostaci dai tempi. Quando l’autorità non è servizio, allora devia verso il proprio tornaconto; si dà fondo alle più svariate risorse demagogiche, si svuotano di idee e progetti gli spazi di confronto, si comprano sostenitori e si sfocia in una politica di compromesso, senza un progetto volto al bene comune. (...)
Dietro alla superficialità e al congiunturalismo immediati (fiori che non danno frutti) esiste un popolo con una memoria collettiva che non rinuncia a camminare con la nobiltà che lo contraddistingue: gli sforzi e le iniziative comunitarie, la crescita delle iniziative comunali, il boom dei tanti movimenti di mutuo aiutostanno a sottolineare la presenza di un segno di Dio, in un turbinio di partecipazione, senza particolarismi, che poche altre volte si è visto nel paese. La nostra gente, che sa organizzarsi in modo spontaneo e naturale, protagonista di questo nuovo legame sociale, esige di poter discutere, gestire e partecipare creativamente in tutti gli ambiti della vita sociale che la riguardano. Noi che siamo alla guida dobbiamo sostenere questa vitalità del nuovo legame. Potenziarlo e proteggerlo può divenire la nostra principale missione.

LE GUERRE FATTE PER VENDERE LE ARMI SUL CORRIERE DEL 9 SETTEMBRE
CITTÀ DEL VATICANO — C’è la parte che al solito ha scritto e limato di persona, quella nella quale il Papa dice che «seguire Cristo» significa combattere «una guerra più profonda contro il male» («A che serve fare guerre, se tu non sei capace di questo?»), che «portare la Croce» comporta «dire no all’odio fratricida e alle menzogne di cui si serve, dire no alla violenza in tutte le sue forme, dire no alla proliferazione di armi e al loro commercio illegale», e già sarebbe chiaro. Ma qui Francesco alza lo sguardo dai fogli e parla a braccio, verso la folla che riempie San Pietro per l’Angelus come sabato sera per la veglia di preghiera e digiuno per la pace in Siria e nel mondo. Perché sul «commercio illegale» ha ancora qualcosa da dire, ed è la più importante: «Ce n’è tanto, tanto! E rimane sempre il dubbio: questa guerra di qua, quell’altra di là — perché dappertutto, ci sono guerre — è davvero una guerra per determinati problemi o è una guerra commerciale, per vendere armi nel commercio illegale?».
Le menzogne dell’odio, le guerre commerciali, «questi sono nemici da combattere uniti e con coerenza, non seguendo altri interessi se non quelli della pace e del bene comune». È come se il pontefice volesse togliere ogni alibi all’uso della forza, anziché il negoziato, per risolvere i conflitti. Come quando nella veglia diceva: «Abbiamo perfezionato le nostre armi, reso più sottili le ragioni per giustificarci». Anche le citazioni evangeliche all’Angelus sono mirate, e basterebbe la parabola riportata da Luca: «Quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere la pace». Certo, «qui Gesù non vuole affrontare il tema della guerra», chiosa Francesco. «Però questa parola del Signore ci dice che c’è una guerra più profonda che dobbiamo combattere tutti: rinunciare alle seduzioni del male e scegliere il bene».
Francesco non si ferma, «l’impegno continua, andiamo avanti con la preghiera e le opere di pace!», esclama tra gli applausi. Un’azione cui associa il lavoro sottotraccia della diplomazia, la rete dei nunzi. L’arcivescovo Pietro Parolin, neo segretario di Stato che entrerà in carica a metà ottobre, ha spiegato al «Diario Cattolico» del Venezuela che la stessa Segreteria di Stato dovrà «ricreare la sua presenza» per essere sempre più efficace in campo internazionale. Con discrezione: «Non vorrei una diplomazia sulle prime pagine. Dobbiamo tener conto di quanto dice il Vangelo: non sappia la tua mano sinistra ciò che fa la tua mano destra».
Così ieri il Papa ha scandito: «Vi invito a continuare a pregare, perché cessi subito la violenza e la devastazione in Siria e si lavori con un rinnovato impegno per una giusta soluzione al conflitto fratricida». Un invito esteso a tutta la regione: al Libano, «perché si trovi la desiderata stabilità e continui ad essere un modello di convivenza»; all’Iraq, «perché la violenza settaria lasci il passo alla riconciliazione»; e per «il processo di pace tra israeliani e palestinesi, perché progredisca con decisione e coraggio». Francesco prega anche per l’Egitto, «affinché tutti gli egiziani, musulmani e cristiani, si impegnino a costruire insieme la società per il bene dell’intera popolazione». Riconciliazione, dialogo. La Chiesa dà l’esempio: l’arcivescovo Gerhard Müller, prefetto dell’ex Sant’Uffizio, ha annunciato ieri che Francesco riceverà in settimana il teologo peruviano Gustavo Gutierrez, padre della Teologia della liberazione. Un lungo percorso di riavvicinamento (ma Gutierrez non fu mai condannato, e in Italia ha appena pubblicato con Müller il libro «Dalla parte dei poveri») si compie con il Papa che vuole «una Chiesa povera e per i poveri». Che cosa dirà al pontefice? Gutierrez ha sorriso: «Soltanto grazie».
Gian Guido Vecchi