Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 11/9/2013, 11 settembre 2013
SE SALINGER AVESSE INSEGNATO A SALUZZO
UNA AVEVA 14 ANNI, 16 in meno, stava seduta a bordo piscina dello Sheraton di Daytona Beach, in Florida, e leggeva Cime tempestose quando lui, bello, pallido, malinconico, le chiese qualcosa sul personaggio principale. L’altra aveva 18 anni, 34 in meno, e stava sulla copertina del New York Times Magazine per un lungo articolo sulla vita vista da una ragazza della sua età quando lui le scrisse una lunga lettera piena di ammirazione e lusinghe.
La prima la portò nei locali di Manhattan, a cena con il direttore del New Yorker, a teatro. La seconda la invitò direttamente nel suo rifugio da eremita nel New Hampshire. Loro si chiamavano Jean e Joyce, lui Jerome David, J.D. sulla copertina del suo libro (The Catcher in the Rye, alias Il giovane Holden), Jerry per loro. Salinger per il resto del mondo.
Fece l’amore con Jean, all’epoca ormai maggiorenne, in un hotel di Montreal. Lei era vergine e lui ne fu contrariato. Il giorno dopo la mise su un volo anticipato per New York e non la cercò mai più. Fece l’amore con Joyce nel suo eremo, lei aveva un disturbo che le contraeva la vagina impedendo la penetrazione. Dopo qualche tempo, sotto falso nome, lui la portò da un dottore in Florida, invano. La lasciò sulla stessa spiaggia di Daytona Beach dove aveva conosciuto Jean. Chiuse un cerchio, rinchiuse se stesso.
IN AMERICA SONO USCITI CON CLAMORE un libro e un documentario degli stessi autori (David Shields e Shane Salerno) intitolati Salinger. Di lui sapevamo poco e ci bastava. Il suo più grande atto di genio è stato sparire. Un’involontaria trovata di marketing e una scelta comprensibile e ammirevole per coerenza: via dal pettegolezzo editoriale, dalle invidie dei piccoli scrivani, dall’unto degli elogi e delle critiche, ugualmente irritanti.
Non sono mai stato un fanatico del Giovane Holden, preferisco due racconti: Per Esmè, con amore e squallore e Un giorno ideale per i pescibanana. Penso che l’arte vada distinta dalla vita e che questa possa anche rimanere un mistero ma, poiché tanto hanno scavato per portare alla luce quella di Salinger, dirò che nel libro e nel film a colpirmi sono state queste due storie, che lui stesso definirebbe «d’amore e squallore».
JANE HA FATTO DI TUTTO PER PROTEGGERE il segreto della propria, e solo davanti all’evidenza ha ammesso e rivelato. Joyce è diventata una scrittrice, meglio: una grafomane. Fui in contatto con lei quando, vivo Salinger, decise di pubblicare un libro su quell’esperienza, nonostante le diffide legali. Di lei si disse che avrebbe potuto scrivere qualunque cosa tranne la propria morte (in compenso si era dilungata su quella della madre). Per dare un’idea: si fece aumentare il seno per tenere la rubrica Vita da maggiorata, poi tolse gli impianti e si fece fotografare con i due mammozzoni in buste di plastica. I loro ricordi di quella giovanile esperienza sono diversi: più dolce il primo, ruvido da subito il secondo. Convergono nell’amarezza dei finali e in un punto: per entrambe è stato amore.
GLI AUTORI DELLA BIOGRAFIA sono indulgenti con Salinger. Dicono che, deluso dal mondo, volesse tornare indietro, alla purezza. Cercasse una compagna, più che per se stesso, per il giovane Holden. Scrivono: «Era ossessionato da ragazze che stavano per sbocciare. Voleva aiutarle a fiorire, poi aveva bisogno di disprezzarle per averlo fatto». A Joyce disse, in chiusura: «Non sei poi diversa da tutte le altre persone». Jean spiega: «Penso che d’un tratto mi abbia trovato fasulla». Nessuna delle due lo colpevolizza. È come se le avesse sfiorate un raggio di sole, poi l’oscurità. Che cosa vuoi, il cielo è tanto più grande di noi. Il «cielo» aveva un metodo di seduzione, vecchio come l’universo. Proponeva se stesso, concedeva loro quel che negava al resto dell’umanità (di nuovo, se stesso), parlava di sé, della sua «autunnalità», alludeva alle ferite, della guerra e della vita. Segnalava libri, condivideva Tv spazzatura, leggeva per loro e con loro scriveva. Si chinava come un grattacielo flessibile sul praticello dove, maledizione a loro, sbocciavano. Alla fine dell’intervista Jean, sposata, madre, fiera e sognante dice: «Io sono Esmè, mi confessò che se non mi avesse conosciuta non avrebbe mai scritto quel racconto». Per Esmè, con amore e squallore.
IO CREDO CHE CI SIA STATO DELL’AMORE, anche da parte sua, almeno verso Jean, la prima. Le ripetizioni, poi, sono esercizi di stile. Penso che in generale l’amore sia la fine dell’attesa, ma in questo caso sia stata l’attesa: quattro anni a guardarla crescere. E stesse davvero cercando qualcosa che possiamo capire e che un altro scrittore, Stig Dagerman, chiamava «il nostro bisogno di consolazione». Lo squallore? Tutte le vicende umane vengono nobilitate dal livello sociale a cui accadono e dalla tempistica. Prendi questa e sostituisci le spiagge della Florida, i teatri di New York e i boschi del New Hampshire con Saluzzo. Prendi quell’uomo con la faccia e il fisico da attore e rimpiazzalo con un tipo cicciotto che indossa la polo sotto il maglione. Al posto delle anatre di Central Park, qualche verso sconsiderato. E, soprattutto, fa che invece di farla franca e finire in un dibattito postumo, venga processato in vita. Togli Esmè, cancella l’amore. Che cosa ti resta?