Alessandro Penna, Oggi 11/9/2013, 11 settembre 2013
CERCO LAVORO IN AMERICA, MA TORNO PER IL PROCESSO
Londra, settembre
Raffaele Sollecito è entrato nel processo per l’omicidio di Meredith Kercher dalla porta di servizio. Per l’accusa, era solo una marionetta appesa ai fili sanguinari della “strega” Amanda Knox. Per la difesa, un “allegato”, come un accessorio del file principale, che poi è sempre Amanda Knox. Raffaele Sollecito è entrato nel processo Kercher dalla porta di servizio, ma ora lo spettacolo è cambiato: al centro della scena, e cioè dell’Appello che riparte a Firenze il prossimo 30 settembre, c’è solo lui. Amanda resterà a Seattle. Rudy Guede tra un paio danni sarà un uomo semi-libero. Al processo più mediatico dell’ultimo decennio è rimasto il suo imputato più “periferico”, contro cui c’è una sola “prova” – il famigerato gancetto del reggiseno di Meredith – che è una prova tra virgolette. Discutibile nel tempo (è stato repertato 46 giorni dopo l’assassinio di Meredith), nello spazio (la polizia scientifica l’ha ripescato a un metro di distanza da dove l’aveva fotografato la prima volta), e soprattutto nella sostanza, visto che sono forti e fondati i sospetti di contaminazione.
Lo incontriamo a Londra, Sollecito. Si presenta e ai convenevoli appiccica il suo biglietto da visita: «Piacere, Raffaele. Che destino segato, eh?».
Come sta vivendo questi giorni che precedono il processo?
«Non sto vivendo. Possibilità di lavoro non ne ho. Ogni volta che faccio un colloquio, le aziende dimostrano interesse, ma poi non richiamano. Non vogliono pubblicità: dovessero assumermi, la notizia uscirebbe sui giornali e sa i commenti, le polemiche...».
È stato avvistato a New York.
«Sto girando gli Stati Uniti, cerco lavoro. Sono un programmatore informatico, e la Mecca per me sarebbe la Silicon Valley, in California. Ma le ripeto: sono come in stand by, vedo tutti che si muovono, mi corrono intorno, e io mi sento “congelato”. Annullando la sentenza di assoluzione, la Cassazione mi ha di fatto rimesso in carcere».
Non ci torna, in Italia?
«In questo periodo non riesco a starci: troppa pressione, troppo stress. Già ho un’esistenza sotto processo: non voglio appesantirla con le malignità, i curiosi, il gossip».
In effetti la sua vita sentimentale è carne da tabloid.
«La mia vita sentimentale è un casino. Spostandomi spesso, passo da una relazione a un’altra. Finiscono tutte male, anche per colpa mia. Ora sono single».
Mesi fa, a Verona, è spuntata una sua presunta fidanzata marocchina.
«Era una mia amica parrucchiera, sono andato due volte a tagliarmi i capelli da lei. Cercava la fama. Uno dei tanti lati spiacevoli di questa mia celebrità forzata».
È, anche, una celebrità un po’ torbida: le ragazze hanno paura di lei?
«Il pregiudizio c’è. Dopo che mi conoscono, capiscono che sono l’esatto contrario di come mi hanno descritto i pm e certi giornali. Poi ci sono delle pazze scatenate che pensano, quasi sperano, che io sia colpevole, e sono attratte da questa possibilità. È grave, eh?».
Si è più innamorato, dopo Amanda Knox?
«Una sola volta, di una ragazza straniera. Non è durata: se non ho una vita, come posso condividerla?».
Lei ha organizzato una colletta su Internet per sostenere le spese legali. Com’è andata?
«Ho avuto una buona risposta, soprattutto dai Paesi anglosassoni: lì hanno capito che io e Amanda siamo vittime di un errore assurdo. Ho raccolto 20 mila dollari: è una cifra che mi dà una grande forza. Se la confronto con i costi del processo, però, è una goccia».
Quanto ha speso, la sua famiglia, per il processo?
«Solo negli ultimi quattro anni, più di un milione di euro. Non avevamo tutti quei soldi, ci siamo riempiti di debiti. Ma il denaro, mi creda, conta poco. La vera domanda è: quanto abbiamo speso, in salute?».
E la risposta?
«Tantissimo. La mia famiglia è distrutta. Mio padre ha gravi sbalzi di pressione: da quasi sei anni vive, come me, immerso in un incubo. Mia sorella ha perso il lavoro, è senza soldi, non sa come andare avanti».
Perché in Inghilterra e negli Stati Uniti la gente tende a credere a lei e ad Amanda, mentre in Italia abbondano i colpevolisti?
«Anzitutto perché i media italiani sono spaventati a morte dal potere giudiziario. Voi lo sapete bene (tra Polizia e il pm Mignini ci è arrivata una mezza dozzina di querele, ndr). In più, il popolo ha una fiducia quasi divina nei giudici, nei poliziotti. Il pensiero comune è: se la Polizia ha agito così, se i magistrati hanno deciso cosà, ci sarà un perché. Chi non ha avuto a che fare con la giustizia, non può credere a una cosa semplicissima: i giudici sono persone come le altre. Possono essere oneste o disoneste, competenti o incompetenti. Sono, soprattutto, fallibili. E non sempre in buona fede».
Mignini e i giudici che vi hanno condannato in primo grado sono in buonafede?
«Non li conosco, non sono nella loro testa. So, però, che hanno fatto errori enormi, irreparabili. Che sono innamorati persi di questa teoria ingegnosa dell’orgia, delle due facce d’angelo che diventano diaboliche, e restano su quelle rotaie, nonostante zero prove a favore e tantissime prove contrarie».
Quali sono, quelle contrarie?
«Ce n’è una serie infinita. Anzitutto, non ho mai conosciuto Rudy Guede: come fai a organizzare un’orgia con delitto, se non conosci il tuo “complice”? Poi Meredith è stata uccisa tra le nove e le nove mezza, come dimostra il suo contenuto gastrico e come ha detto lo stesso Guede, che non aveva motivi per mentire sugli orari. Io ero a casa, a quell’ora, lo dimostrano le perizie sul mio computer. Non ci sono tracce, né mie, né di Amanda, nella stanza di Meredith: potevamo pulirle via e lasciare solo quelle di Guede? Neppure con un microscopio sarebbe stato possibile».
Resta il famoso gancetto.
«I periti della Corte d’Appello, che erano imparziali, hanno detto che c’è una probabilità su 3 miliardi che ci sia il mio Dna là sopra. Se non segui protocolli, e i protocolli non sono stati seguiti, da quella traccia puoi tirare fuori qualsiasi persona. E poi, io non avevo alcun motivo per fare del male a Meredith. A Meredith come a nessuno».
Beh, l’accusa ha scritto, e la Suprema Corte riscritto, che lei è un amante dei Manga, i fumetti giapponesi, e quindi un potenziale omicida.
«Ma allora devono arrestare tutto il Giappone, perché lì vivono per i Manga (ride, ndr)».
I colpevolisti si chiedono: se Raffaele è davvero innocente, come ha fatto a resistere a quattro anni di carcere?
«In carcere non avevo nessuna speranza. Non ho pensato al suicidio solo perché sono credente: la vita mi è stata donata, non ho diritto di togliermela. Lì dentro mi lasciavo trascinare. Vedevo, lontana, solo una piccola fiammella: “La verità verrà fuori”, mi ripetevo, e il resto non mi toccava».
Come sono stati, quei quattro anni?
«Diversi da quelli di Amanda: tante persone mi hanno aiutato, ma tante mi hanno minacciato, “molestato” psicologicamente. Una guardia mi ha chiuso a chiave in biblioteca per quattro ore. Quattro ore in una stanza senza bagno, senza finestre. È un dispettuccio, lo so, ma in carcere è tutto amplificato: un dispettuccio diventa una tragedia».
I colpevolisti vi rimproverano anche quel bacio fuori dalla villetta del delitto.
«Era un bacio di protezione, consolatorio. Tagliato dal contesto, ripetuto dalle tv e nelle foto, ha assunto un’altra colorazione. So già che altro mi rimproverano: l’acquisto delle mutandine».
Secondo il proprietario del negozio, lei avrebbe detto ad Amanda: «Stasera facciamo sesso selvaggio».
«È ridicolo. La casa di via della Pergola era sotto sequestro e Amanda era rimasta senza vestiti. Siamo usciti a comprare degli slip, lei ne scelse uno con stampata la mucca di un cartone animato. Io, per farla ridere feci una battuta. Una frase tipo: “Wow, che sexy”. Anche questo è stato usato contro di noi».
Siamo a Londra: Coulsdon, dove vivono i Kercher, è a un’ora di macchina. Mai stato tentato di bussare alla loro porta?
«Sì, ma loro mi caccerebbero. Ho provato a contattarli mandando una lettera al loro avvocato, ma non ho avuto risposta. Ora glielo chiedo pubblicamente: “Datemi la possibilità di parlare con voi”. So che è difficile: se quel che è successo a Meredith fosse successo a mia sorella Vanessa, sarei impazzito, non vorrei sentire nessuno. Ma io chiedo ai Kercher di avere una visione razionale dei fatti, di non attaccarsi al teorema della procura, a quel dolore terribile che forse li spinge a trovare più colpevoli possibile».
Secondo lei Guede ha fatto tutto da solo? Sulla scena del delitto sono stati trovati altri cromosomi maschili.
«Penso che appartengano ai poliziotti. Per me è stato Rudy e basta».
Guede sa cosa è successo davvero. Vuole lanciare un appello anche a lui?
«Non servirebbe a nulla, non credo che avrà sussulti di coscienza. Poi ho l’impressione che la procura l’abbia protetto: non è mai staro interrogato in modo serio, altrimenti sarebbe venuto fuori tutto. Il suo legale, l’avvocato Valter Biscotti, ha preso una decisione furba: scegliendo il rito abbreviato, l’ha “staccato” da noi, ci ha negato il confronto».
Nel suo libro Honor bound lei dà conto di una “trattativa” durante la quale, per vie indirette, le sarebbe stato offerto di minare l’alibi di Amanda in cambio di un trattamento morbido da parte dell’accusa.
«Rifiutai senza nemmeno cercare di capire se l’offerta fosse credibile perché avrei dovuto dire una bugia. Quella notte io e Amanda la passammo insieme, a casa: se l’avessi scaricata, forse mi sarei salvato da un’ingiustizia, ma non dalla la mia coscienza. E se mi chiede se lo rifarei, le rispondo: mille volte».
Ora, pero, che lei è sulla graticola, Amanda la lascia solo: si sente tradito?
«Io non mi aspettavo niente da lei. Da lei come da nessuno. Posso capirla, probabilmente mi sarei comportato nello stesso modo, anche se una parte di me dice che sarei tornato. Tra l’altro, non siamo nemmeno più fidanzati: perché dovrebbe rischiare l’esistenza per me?».
Ci pensa mai a come sarebbe andata la vostra relazione senza il processo?
«Già chiamarla relazione è eccessivo: ci eravamo incontrati solo una settimana prima! Comunque, ho i miei dubbi: non ci conoscevamo, abbiamo un background totalmente diverso, siamo due persone diverse. Difficile durare, con questi presupposti».
Scusi la domanda morbosa, ma l’accusa dipinge Amanda come una dea del sesso. È un dipinto realista?
«Guardi, è qui la radice del loro errore, di quel teorema ridicolo dell’orgia. Amanda era timida, inesperta, un po’ imbranata: come me, d’altronde. Non voglio entrare nei dettagli, non sarebbe giusto. Ma le dico, a titolo di esempio, che molte volte preferiva che le pettinassi i capelli piuttosto che fare altro».
L’ultima volta che l’ha vista?
«A giugno, a New York. Ma ci sentiamo via mail: lei cerca di tenere questa cosa nell’angolo. A me non riesce: io e la mia famiglia lavoriamo ogni giorno, sui documenti di questo processo, che è uno schiaffo all’umanità e al buon senso».
Questo processo ricomincia il 30 settembre. Sarà in aula?
«Alle prime udienze, che saranno molto tecniche, no: distoglierei le attenzioni dai fatti. Poi, naturalmente, tornerò».
Si è chiesto perché vogliono incastrarvi a tutti i costi?
«Perché i giudici si credono onnipotenti e onniscienti. Loro non possono sbagliare. E poi, se sbagliano, non pagano mai di persona. Se verrà dimostrato che il pm Mignini e il giudice di primo grado Massei hanno fatto un errore colossale, a metterci in carcere, e io chiedessi l’indennità per ingiusta detenzione, loro non tirerebbero fuori un centesimo. Pagano sempre i cittadini».
Ci ha mai parlato con Mignini?
«L’ho incontrato una volta per strada, a Perugia, dopo l’assoluzione. Gli ho detto: “Buonasera”. Lui non mi ha risposto. Poi ho provato a contattare l’altra pm, Manuela Comodi. Le ho chiesto l’amicizia su Facebook, ma senza alcun intento polemico: volevo capire il perché di tanta rabbia contro di me e di Amanda. Anche lei non mi ha risposto, ma è comprensibile».
La Cassazione, nell’annullare la sentenza assolutoria, sembra aver dato una spinta “colpevolista” al nuovo processo. Si aspetta un verdetto equo?
«La giustizia è come una roulette: domina il random, il caso. Se trovo un giudice corretto, avrò un processo corretto. Se trovo uno che ha fissazioni mentali, la sentenza sarà piena di fissazioni. Se il giudice fa parte di un gruppo di persone che vogliono esercitare il loro potere... È come in una guerra tra gli dei».
Li prega, gli dei?
«Sono una persona razionale, so che non abbiamo controllo sulla nostra vita. Ma, certo, prego. Prego Dio, i miei cari che non ci sono più: sento mia madre sempre vicina, sempre presente».
Se la assolvono?
«Cercherò di costruirmi una vita e una carriera fuori dall’Italia. Ho sempre avuto questo desiderio, ora ancor di più: voglio stare lontano dalla curiosità della gente, dalla pressione».
E se la condannano?
«Non ci penso. Se ci penso, mi disintegro».
Alessandro Penna