Maurizio Ferrera, La Lettura 8/9/2013, 8 settembre 2013
I BAMBINI NELLA TRAPPOLA DELLA POVERTA’
Immaginate di passare una notte completamente insonne. Come vi sentireste il giorno dopo nell’affrontare un colloquio di lavoro o negoziare un prestito in banca? Non certo bene, sicuramente non in grado di dare il vostro meglio. È ciò che succede a chi diventa povero. La preoccupazione su come sbarcare il lunario drena attenzione ed energia, la mente si annebbia, diventa difficile essere intraprendenti e si finisce per restare come imprigionati nella situazione di indigenza. Da tempo gli scienziati sociali parlano di «trappola della povertà».
Finora si pensava però che la dinamica sottostante fosse di natura essenzialmente economica: se il welfare state paga un sussidio, il povero perde convenienza a cercare lavoro e si rassegna a vivere con poco, ma a carico dello Stato. I neuropsicologi ci spiegano ora che la trappola è (anche) di natura cognitiva: è cioè connessa alla «finitezza» delle nostre capacità mentali e al loro eccessivo utilizzo, in caso di difficoltà materiali, per salvaguardare elementari esigenze di «sopravvivenza».
A lanciare l’allarme sulle conseguenze cognitive della povertà è stato a fine agosto un importante articolo uscito su «Science» (già commentato sul «Corriere» del 31 agosto da Sergio Harari), che ha illustrato i risultati di alcune interessanti ricerche sperimentali. Due partecipanti del gruppo di ricerca hanno anche scritto un libro di taglio più divulgativo, in cui approfondiscono le dinamiche della «psicologia della scarsità», della forma mentis che s’impadronisce di noi quando ci manca qualche bene importante: non solo denaro, ma anche tempo, calorie, amici. La mentalità «da carenza» ci spinge a concentrare energie sui bisogni più pressanti e sulle migliori strategie per soddisfarli (e ciò è un bene dal punto di vista della sopravvivenza evolutiva). Ma al tempo stesso questa mentalità accorcia i nostri orizzonti, ci rende miopi e meno creativi, limitando paradossalmente le nostre possibilità di superare la carenza stessa, di evolvere verso un maggior benessere.
Secondo il libro, il «sentirsi povero» abbassa il quoziente di intelligenza di circa 13 punti, più o meno quanto una notte insonne. Si tratta di un’indicazione di portata storica: per secoli la relazione causale fra povertà e intelligenza/impegno è stata di segno opposto. Non è la mancanza di «orgoglio, onore e ambizione» che conduce alla povertà (secondo la famosa teoria di Joseph Townsend, autore di una influente Dissertation on the Poor Laws del 1786). È al contrario la povertà che ci condanna a una vita cognitivamente limitata, a usare il paraocchi per non distogliere la nostra attenzione dallo scopo primario della sopravvivenza materiale, trascurando ogni altro obiettivo di miglioramento. È un dato che nei Paesi in via di sviluppo le persone che si trovano in miseria estrema non prendono le medicine (anche se gratuite), non si lavano le mani per evitare contagi, non strappano dai campi le erbacce che danneggiano i raccolti... Non si tratta di vizi caratteriali, ma di conseguenze cognitive delle loro condizioni economiche.
L’impatto della povertà sulle capacità del nostro intelletto è particolarmente nefasto durante l’infanzia. Molti studi di psicologia dell’età evolutiva e di economia hanno già da tempo segnalato che, a partire dal secondo anno di età, il contesto socioeconomico all’interno del quale si cresce condiziona in modo significativo la gamma e il tipo di opportunità di cui i bambini dispongono e aumentano il rischio di «restare indietro» dal punto di vista intellettivo. Dire che quando si inizia la scuola dell’obbligo più della metà delle carte che contano nel successo della vita sono già state giocate può suonare come un’iperbole, ma rende bene l’idea.
A quindici anni, a parità di quoziente di intelligenza misurato a sei anni, chi proviene da famiglie povere ha accumulato un ritardo di due anni quando risponde ai test Pisa sulla comprensione verbale. La povertà produce cicatrici precoci nello sviluppo cognitivo, che restano visibili per tutta la vita. Ciò vale in larga parte anche per la disoccupazione. Chi si affaccia sul mercato del lavoro per la prima volta durante una recessione (come purtroppo sta accadendo oggi a moltissimi giovani europei) si sente più insicuro, è oppresso dal timore di restare senza lavoro e senza reddito e tende ad avere un profilo occupazionale e retributivo più sfavorevole lungo tutto il corso della vita rispetto a chi vi entra durante una fase di crescita. La Joseph Rowntree Foundation ha stimato che gli attuali livelli di povertà minorile in Gran Bretagna (superiori al 20%) «costano» circa il 2% del Pil in termini di sussidi e mancato reddito per l’economia (e il fisco).
Se è vero che i poveri sono vittime di vere e proprie trappole che ostacolano la loro intraprendenza e che hanno effetti molto negativi a livello sia individuale sia aggregato, la risposta non può che essere una lotta collettiva senza quartiere alla povertà e all’esclusione sociale, soprattutto quella fra i minori. Lo sanno bene i Paesi nordici, che da almeno tre decenni hanno ricalibrato il proprio welfare irrobustendo trasferimenti e servizi per i meno favoriti.
La rete di sicurezza di questi Paesi è non solo generosa, ma anche efficace: i beneficiari delle misure antipovertà riescono a fuoriuscire molto rapidamente (pochi mesi) dalla loro condizione e a rimettersi in careggiata. Se hanno ragione i neuropsicologi, le loro capacità intellettive non ne risentono in misura significativa. In Scandinavia inclusione e istruzione (compresi gli asili nido) sono considerate priorità irrinunciabili e a esse vengono dedicate quote importanti di spesa pubblica: intorno al 10%, più della metà in confronto ai Paesi dell’Europa continentale.
Riflettendo su tutte queste dinamiche, gli studiosi di welfare sono diventati critici nei confronti di molte politiche di tipo tradizionale, volte a rispondere solo ex post ai bisogni sociali e raccomandano invece un approccio preventivo, che miri a contenere il più possibile ex ante l’insorgenza dei bisogni e in particolare della povertà e dell’esclusione. Secondo un recente studio di Morel, Palier e Palme, è opportuno passare dal welfare state novecentesco a nuove forme di investimento sociale da parte dello Stato, rivolte in particolare ai bambini e alle madri che lavorano. L’Unione Europea ha sposato con entusiasmo questa prospettiva. Una rottura col paradigma dell’austerità? Potenzialmente sì. Naturalmente aspettiamo decisioni concrete, capaci di cambiare la percezione ormai diffusa che Bruxelles sia amica del mercato, ma nemica di ogni forma di welfare.