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 2013  settembre 07 Sabato calendario

LA MIOPIA COLLETTIVA DEL SISTEMA BANCARIO

A cinque anni dal fallimento Lehman, e sei dall’inizio del crollo di Borsa che ha dato il via alla crisi delle banche nel mondo, il nostro sistema bancario non ha ancora imboccato la strada di una radicale, quanto indispensabile, ristrutturazione. Sembra quasi che manchi la consapevolezza di quanto sia urgente; e casi clamorosi come Banco Popolare e Italease, Bpm, Mps, Carige, Banca delle Marche, o il coinvolgimento in dissesti e ristrutturazioni eclatanti come Alitalia, Fonsai, Rcs, Zaleski, Zunino, Prelios siano percepiti come sfortunati eventi e non come segnali di una crisi più pervasiva.
L’ottimismo che si percepisce negli ultimi mesi si fonda prevalentemente su un rialzo dei titoli Borsa. Un rialzo che però è alimentato da politiche espansive delle Banche centrali, difficilmente sostenibili (e che l’aumento dei tassi a lunga già ne anticipa la fine). Come non lo sono le aspettative di una robusta ripresa economica europea al traino della Germania: sarebbe una crescita basata sull’export in un mondo in cui nessuno fa la locomotiva.
Più che ai prezzi di Borsa, per valutare la crisi delle nostre banche, bisogna guardare al rapporto tra valore di mercato e valore contabile del loro patrimonio. Se il rapporto è minore di uno, implica valori di bilancio non credibili; se è maggiore, ci si aspetta una redditività del capitale futuro in crescita rispetto a quello accumulato in passato (che è il valore contabile). I multipli pre-crisi si sono sgonfiati: il dato mediano delle 10 maggiori banche italiane è sceso da 1,5 del 2007 allo 0,4 atteso per il 2013. Come nel resto d’Europa: da 2,3 a 1,0 nel resto della Ue (più Svizzera); e da 2.2 a 1,0 nel resto dell’Eurozona. Dunque, non solo il mercato valuta mediamente le banche italiane a sconto rispetto all’Europa (che pure include Grecia, Spagna e Irlanda), ma lo sconto è anche aumentato: dal 33% rispetto alla UE nel 2007, al 60% odierno; maggiore anche che nel 2011, all’apice della crisi dei titoli di Stato. Non c’entra il goodwill derivante da fusioni a valori insensati: lo sconto è identico se si considera il patrimonio tangibile. Né i criteri di vigilanza più severi che, riducendo il patrimonio contabile, migliorerebbero il rapporto.
La ristrutturazione deve essere decisa. Le banche devono ripulire i bilanci in modo drastico e convincente: valutare con realismo l’esposizione immobiliare, il sostegno dato a tanti gruppi, le posizioni immobilizzate, e la dinamica futura delle sofferenze (tipicamente aumentano anche dopo che la recessione ha toccato il minimo). Farlo perché incalzati dalla Vigilanza fa solo perdere credibilità.
Devono recuperare redditività tagliando i costi, chiudendo gli sportelli inutili, smettendo collocare prodotti di risparmio opachi e costosi, per tornare a investire nella capacità di valutare il rischio di credito (carente a giudicare dai risultati).
Per il personale la questione non è solo di costi, ma di professionalità obsolete che non corrispondono a quelle necessarie in futuro. Prepensionamenti e ”attrito” sono dunque inefficienti. Gli enormi portafogli di titoli di Stato vanno liquidati e il rischio dell’attivo ridotto attraverso cessioni di prestiti e promozione dei corporate bond: la disintermediazione oggi è nell’interesse delle banche.
La ristrutturazione di un sistema ancora troppo frammentato impone anche un’ondata di fusioni: la dimensione conta e il “radicamento territoriale” si è dimostrato un boomerang. Accompagnata da aumenti di capitale sul mercato. Il punto dolente. L’invito del governatore alle grandi banche popolari di trasformarsi in spa è sacrosanto e apprezzabile. Impossibile però farlo per legge: la lobby trasversale delle popolari in Parlamento lo bloccherebbe. Avrebbe potuto imporlo la Banca d’Italia in passato come condizione per uscire dalla crisi (Lodi, Banco Popolare, Bpm); ma Fazio e Draghi, su questo in sintonia, non hanno voluto farlo. Altrettanto apprezzabile l’invito di Visco alle Fondazioni a uscire dalla governance delle banche. Ma dopo anni in cui sono state spinte a sostenere le fusioni e sottoscrivere aumenti di capitale dai suoi due predecessori; in sintonia col Tesoro. Coi risultati che adesso vediamo.