Filippo Facci, Libero 10/9/2013, 10 settembre 2013
CARA CARROZZA PENSI INVECE A CHI IL CAMERIERE LO FA DA LAUREATO
Ci sono battute che non puoi evitare. Il ministro dell’Istruzione Maria Chiara Carrozza, domenica, ha detto così: «Mai più un laureato che arriva a 25 anni senza aver avuto un’esperienza come cameriere o assistente di libreria». Ecco, la prima battuta - che non è una battuta - è che si rifaranno dopo la laurea: infatti lo Stato dovrebbe preoccuparsi che i laureati non facciano i camerieri dopo la laurea, non che lo facciano prima. Magari il ministro in linea di massima ha pure ragione, ma il suo lavoro non è sperare di modificare in un niente (con un decreto) un serio problema generazionale che purtroppo si è consolidato nei decenni, e che costituisce, come si dice, un problema culturale di questo Paese. La seconda battuta sarebbe il chiedere al ministro quale esempio personale possa avanzare a proposito, e badi bene, la domanda non è malevola né retorica: in rete c’è il suo curriculum dettagliato, ma vi si apprende che si è laureata (1990) dopodiché dall’università non è più uscita. La sua è una degnissima e apprezzata carriera accademica con infinite pubblicazioni che l’hanno portata a divenire un’apprezzata professoressa e infine ministro, ma non sappiamo se, da studentessa, abbia sbarcato il lunario in pizzeria o da «assistente di libreria», cioè la vecchia commessa.
Probabilmente sì, altrimenti non avrebbe parlato: ma il non trovarne traccia nel curriculum ci è parso contraddittorio o simbolico dell’effettiva importanza che possa avere per un datore di lavoro. Il ministro, domenica, ha detto anche «aziende molto importanti si aspettano che il candidato abbia avuto esperienze di lavoro prima della laurea ». Ma allora - sempre che scrivere «cameriere» nel curriculum cambi davvero qualcosa - perché il ministro non l’ha scritto?
Sempre a proposito di buon esempio, poi, ci sarebbe il problema di scoraggiare il luogo comune secondo il quale le conoscenze e le parentele possano facilitare una carriera. Anche qui la malevolenza è in agguato. Il ministro Carrozza, professore universitario, è figlia di un professore universitario, è sorella di un professore universitario e - per completezza - è moglie di professore universitario, peraltro due volte senatore nonché sottosegretario nei governi Prodi e D’Alema. Il rischio è quello già corso dall’ex sottosegretario Michel Martone quando definì «sfigati» i fuoricorso 28enni, lui che a 29 anni era già professore ordinario e perciò fu bollato come raccomandato di ferro.
Detto questo, il ministro Carrozza - che a proposito, altra cosa: parla un italiano veramente orribile - tutto sommato ha ragione. Il fancazzismo dei giovani italiani è un dato statistico ineludibile benché contestatissimo: anche se un ministero, da par suo, forse dovrebbe occuparsi di incentivare gli studenti meritevoli e nondimeno l’ingresso nel mondo del lavoro, non preoccuparsi che facciano i camerieri per farsi umanamente le ossa. Ma ha ragione lo stesso. La percentuale di giovani che albergano coi genitori sino a tarda età, in Italia, è più alta che mai (pure i bamboccioni spagnoli ci battono) e la tendenza a proteggere i figli dal bisogno e dalla competizione sconta naturalmente le colpe dei padri. Alla loro propensione a diventare sindacalisti dei loro figli, anziché fisiologici oppositori, Antonio Polito del Corriere della Sera ha dedicato tra l’altro un fortunato libro («Contro i papà », Rizzoli 2012) nel quale si documenta e sostiene ciò che in Italia è implicito e tuttavia indicibile: che oggi i padri si atteggiano semmai a fratelli e a complici, i quali, perciò, hanno indubbiamente favorito la sazietà e il conformismo di un’intera generazione. Il mantra paternalista ha trasformato il diritto al lavoro nel diritto a un lavoro, ha infiltrato l’illusione di un diritto al benessere senza doveri connessi, si è schermato della scusa che la raccomandazione serva a mettersi a pari con le raccomandazioni altrui. Soprattutto, per tornare alla scuola, il paternalismo post-sessantottino ha parcheggiato frotte di studenti che vivono la stagione universitaria come una prosecuzione della tarda adolescenza, e che si tengono ben lontani - rieccoci - dai cosiddetti “mcjobs”, cioè appunto i lavoretti da camerieri, commessi, pony express, roba che in Italia fanno perlopiù gli extracomunitari o i ragazzi che davvero hanno bisogno. Gli altri, preservati da doveri e fatiche che all’estero sono quotidianità anche dell’upper class, in Italia sono studenti professionisti e non di rado vivacchiano su un «diritto allo studio» che spesso non fa che appesantire il deficit del Paese. Perché lo Stato chiede a ogni studente tra i mille e i duemila euro l’anno in tasse universitarie, ma ne spende in media settemila: dunque a mantenerli ci pensa la fiscalità generale, cioè le tasse pagate anche da chi i figli all’università non ce li manda, magari perché non può: perpetuando così una gigantesca ingiustizia sociale travestita da egualitarismo. E che ora rischia di trasformarli, di converso, tutti in camerieri: ma laureati.