Gian Enrico Rusconi, La Stampa 11/9/2013, 11 settembre 2013
IL MERKELISMO CHE CAMBIA L’UE
La cancelliera Angela Merkel sembra andare verso un «plebiscito» - un termine che non è più sospetto nella cultura politica tedesca. Anche in Germania «l’opinione o sfera pubblica», di cui spesso i filosofi parlano enfaticamente, è infiltrata e pressata dalle indagini demoscopiche e dalle pressioni mediaticopolitiche. Oggi si parla di rimonta socialdemocratica e di possibile risultato elettorale incerto. Si profila la soluzione familiare della Grosse Koalition. Si tratta di una ragionevole previsione o di una sottile operazione politico-mediatica? In ogni caso le elezioni daranno un carico di responsabilità ancora maggiore ad Angela Merkel. Parlare di merkelismo non è più un semplice vezzo giornalistico.
Questa cancelliera, che non sembra suggerire alcuna immediata analogia con nessuno dei suoi predecessori, ha creato qualcosa di più di uno nuovo stile di governo. Ha alle spalle due mandati di governo: la Grande Coalizione con la Spd dal 2005 al 2009 e poi sino ad oggi la coalizione con i liberali. Da entrambe le esperienze, nonostante le difficoltà, ne è uscita bene - ma a spese degli alleati. Nel frattempo nel proprio partito ha fatto attorno a sé un vuoto di competitori, senza trovare nel campo dell’opposizione avversari in grado di metterla in difficoltà .
A livello internazionale ed europeo ha creato per la Germania un profilo assertivo che sconcerta studiosi e storici che insistono nell’applicare il classico armamentario concettuale di «egemonia». «potere/potenza», «leadership», riparlando magari di «questione tedesca» (vecchia o nuova). Seguita la litania della «Germania europea o Europa germanica». «L’Economist» intitola il suo Special Report sulla Germania del giugno 2013 Europe’s reluctant hegemon. Egemone riluttante o non piuttosto egemone semplicemente spiazzante rispetto ai vecchi schemi? In effetti la Germania della Merkel pensa in termini globali di competizione con gli egemoni mondiali America, Russia, Cina e tenta di trascinare con sé gli europei che sono i veri «riluttanti» .
Il merkelismo è ambizioso, proprio perché non sente il bisogno di giustificarsi in termini ideologici tradizionali. I suoi avversari di destra e di sinistra lo accusano di miseria intellettuale, e assai più severamente Jürgen Habermas parla di «mancanza di un nocciolo normativo». Ma contrapporvi l’utopia del demos/popolo europeo, o anche quella del mai concretizzato progetto federalista fa a pugni ogni giorno contro l’irreversibile affermarsi del primato degli interessi «egoisti» degli Stati nazionali. In questo la Germania offre semplicemente l’esempio di un «normale egoista».
Credo che il merkelismo vada criticamente affrontato dall’ottica più difficile: dal confronto con le ragioni e gli argomenti che hanno presa su una massa consistente di cittadini. E’ il nodo di quella «sfera pubblica» che è stata messa al centro di tante aspettative idealizzate. Qui si gioca la sfida comunicativodemocratica di un’analisi politica e non si accontenta di denunciare il populismo, il nazionalismo, l’egoismo di nazione o di classe.
Angela Merkel non ama i grandi discorsi politici, tanto meno le teorie politiche. Tempo fa è uscito un suo libro con un titolo sorprendente: «Machtworte/Parole del potere» (o della potenza?) che raccoglie una selezione di suoi interventi pubblici (l’editrice Claudiana di Torino ne ha curato una versione italiana). Nel libro non c’è nulla che assomigli ad una filosofia politica; non si parla né di potere né di governo, ma in termini colloquiali di libertà, di storia o di Occidente. Un passaggio chiave si trova in un capitolo dedicato alla crisi finanziaria, ma porta il titolo: «Chiediamo consiglio a una casalinga sveva». Se interpellata questa cittadina – dice la Merkel - «avrebbe citato una massima di vita tanto semplice quanto corretta: “alla lunga non si può vivere al di sopra delle proprie possibilità”. Questo è il nocciolo della crisi».
Si tratta di pura demagogia? Di populismo? E’ facile affermarlo. Ma il segreto della cancelliera Merkel è che non parla soltanto alle casalinghe (ai lavoratori autonomi, agli operai), ma a imprenditori, manager, banchieri, economisti ecc. che la seguono. Al momento sembra avere dietro di sé l’intera classe dirigente del Paese, anche se questa qua e là la critica molto educatamente. La sua strenua difesa del «modello tedesco» cui gli altri europei devono adeguarsi, anzi imitare, va bene alla classe dirigente tedesca. Ma questa classe sa altrettanto bene che il successo tedesco non è dovuto soltanto alle sue riconosciute qualità professionali (o alle virtù delle casalinghe), ma a meccanismi di mercato reale e finanziario di cui l’economia e l’imprenditoria tedesche hanno goduto. Meritatamente, ma forse in misura squilibrata rispetto ad altri partner meno forti (e magari meno virtuosi). Il successo è dovuto anche alle riforme introdotte un decennio fa dall’allora criticatissimo cancelliere socialdemocratico Gerhard Schroeder (riforme ora sintetizzate dalla «Agenda 2010») che la Grande Coalizione guidata dalla Merkel a suo tempo ha mantenuto a fatica.
Oggi per far valere la sua linea «del rigore e delle riforme» sugli altri partner europei con argomenti da loro condivisi solo in parte, la cancelliera parte dalla certezza che in Europa non si può decidere nulla senza la Germania, tantomeno contro di essa.
Questa affermazione suona antipatica, ma esprime anche un tratto caratteristico della stessa Unione europea in cui la cancelliera si riconosce: discutere, dibattere, convincere, ma anche minacciare, ricattare. La Merkel è maestra in questo anche all’interno del suo Paese. Il suo modo di decidere è cauto, graduale, incrementale, ma talvolta anche repentino, magari sotto la pressione di eventi esterni (come fu il caso della sospensione della produzione dell’energia nucleare in Germania dopo l’incidente di Fukushima), ma ostinata e determinata una volta che la decisione è stata presa.
Con questo stile decisionale Angela Merkel guiderà la Germania nei prossimi anni, i più impegnativi dopo il 1989/90, dopo i Trattati di Maastricht e dopo l’introduzione dell’euro. Si tratta infatti di confermare e insieme rivisitare alcune regole e accordi sorti proprio da quel nesso di eventi che sino ad ieri si pensava fosse l’asse fisso attorno al quale si poteva costruire e rafforzare l’identità politica, economica, culturale dell’Europa e della Germania stessa. Oggi non è più così. Dopo Maastricht e Lisbona non c’è stato semplicemente un trend in discesa. Si sono verificate due fratture, di natura diversa, che hanno visto come protagonista di primo piano il governo della Merkel: la crisi greca e il dibattito sul destino dell’euro, duro ed esplicito come non mai prima.Sono due episodi che hanno scosso in profondità l’edificio dell’Unione europea.
Ma la cancelliera affronta la campagna elettorale con drammatizzazione moderata, secondo il suo stile. Ripete le sue parole d’ordine: «Non ci sono alternative», «l’Europa si salva salvando l’euro», «ciò che è bene per la Germania, è bene anche per l’Europa». Sono messaggi semplici ma tutt’altro che innocui, a cominciare dall’ultimo che è l’inconscia inversione del classico motto da Adenauer a Kohl che «ciò che è bene per l’Europa, è bene anche per la Germania». Adesso lo si dice in senso inverso.
La strategia di fondo della Germania merkeliana in Europa non cambierà, anche se la futura cancelliera non esclude qualche innovazione o variazione - a seconda dell’esito delle elezioni e la connessa coalizione. Soprattutto nel caso si arrivasse ad una riedizione della Grande Coalizione con la socialdemocrazia. Quali potranno essere le innovazioni? Un atteggiamento più morbido verso gli eurobond o meglio verso le misure tese ad una qualche assunzione di responsabilità comune verso le difficoltà (debitorie e non solo) dei Paesi in difficoltà? Rafforzamento delle competenze di intervento della Banca centrale europea? Modifiche a livello istituzionale della Ue? Naturalmente non si può escludere neppure che una diversa coalizione (con i liberali) lasci invece le cose come stanno. Nessuno lo sa.
La vera sorpresa delle elezioni potrebbe essere la AfD (Alternativa per la Germania) il partito che mira espressamente alla liquidazione dell’euro, così come è oggi, e quindi alla ripresa della piena autonomia monetaria della Germania. Quanto è rappresentativa l’AfD? Anche qui sta accadendo qualcosa di curioso. Mentre le indagini demoscopiche non le danno neppure la chance di superare lo sbarramento del 5% per entrare in Parlamento, se ne parla in continuazione. Questo partito sembra svolgere la funzione surrogatoria di un dibattito aggressivo, «fuori dai denti» sull’Europa e sull’euro, che altrimenti si alimenta del consueto frasario politicamente corretto, pur nella rituale insoddisfazione per le pietose condizioni dell’Europa e il risentimento verso i Paesi meridionali.
Per concludere: la cancelliera tedesca non ama le grandi teorie politiche, anche quando parla del futuro federale dell’Europa e di possibili riforme istituzionali. Ma la sua linea operativa suggerisce una definizione di quello che ha in testa: un federalismo degli esecutivi, dei governi, che prenda il posto dell’attuale inefficiente combinazione di assemblea parlamentare, commissione e summit di capi di governo. Sarà questo il futuro istituzionale dell’Europa? Un «federalismo degli esecutivi», sostenuto ovviamente dai singoli parlamenti nazionali? È presto per parlarne. Ma dietro alla circospezione del dibattito elettorale sui temi istituzionali europei è latente anche questa soluzione. Vedremo.