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 2013  settembre 09 Lunedì calendario

URLA, LACRIME E "SVEDESI" DI PAOLO CANE’

Per alcuni era Paolo “il caldo”, senza alcun riferimento al romanzo di Vitaliano Brancati. Per altri era la versione nostrana di Andre Agassi, ma solo per lo stile libero nell’abbigliamento e nei capelli lunghi. Per gli appassionati di Gianni Clerici, e dei suoi articoli, era “neuro-Canè”, grazie alle improvvise botte di ira, crisi di nervi, racchette spaccate, una lite con lo spettatore. Squalificato. Un dritto che passava e un rovescio a una mano fonte di emozioni per chi lo guardava. Peccato per la battuta, fiacca, molto fiacca, quando dall’altra parte c’erano già bombardieri modello Ivanisevic. “E allora fate una classifica dei giocatori italiani di tennis rimasti nei cuori dei tifosi. Ci siamo io e Adriano Panatta, per gli altri è una sorta di anonimato”.
PROBABILMENTE È VERO. Con un però: mentre mister terra rossa ha conquistato il primato grazie ai successi di Parigi e Roma, con Canè l’eterna fama arriva soprattutto per un match storico, drammatico nella sua essenza, giocato a Cagliari in Coppa Davis contro l’allora numero uno, lo svedese Wilander. “Non ha idea di quante volte mi hanno chiesto di raccontare quelle ore, ogni persona che mi conosce mi strappa un aneddoto, un ricordo. Meno male che l’ho vinto! Altrimenti sarebbe stata una tragedia”.
Antefatto. Panatta era capitano, “neuro” il migliore tra gli italiani. Tra i due non è mai stato feeling, solo necessità l’uno dell’altro. Il primo lo fa fuori dal giro dopo un match di Davis, il secondo stizzito replica: “Mai più in nazionale”. Fino a quando “venne a riprendermi in Australia durante lo Slam, mi chiese di tornare, c’era la Svezia da battere”. Il Pese aveva bisogno di lui, con la retorica necessaria quando si parla di azzurro. “Così scesi in campo. Attenzione: ho sempre giocato meglio con quelli forti, andate a vedere le statistiche, i numero uno li ho sconfitti quasi tutti”. Ecco la lista di alcuni “caduti”: Connors, Stick, Leconte, Cash, Mecir e Agassi. Con Nystroem, Edberg, Wilander “che mi chiamavano ‘l’ammazza-svedesi’ soprattutto dopo Cagliari”. E torniamo lì, alla Davis. “Partita interminabile, con un grande apporto di Panatta, e un pubblico in grado di sostenermi nei momenti di crisi”. E che crisi! Lacrime, urla, imprecazioni, una concentrazione rara di tutti gli stereotipi sulla solitudine del tennista, su quanto conta la psicologia. “Tantissimo, la testa mi ha rovinato un po’ la carriera, ma molte situazioni sono state amplificate. Mica ero come McEnroe! John è uno matto, ma tanto, ancora oggi fa il protagonista nei tornei over: con bestemmie e accuse verso avversari e arbitri. Io giusto qualche cosina...” Come quando ha spiegato a uno spettatore viennese, particolarmente molesto e brillo di champagne, cosa vuol dire la tensione. Il risultato sono state due dita rotte per il malcapitato dopo lo scontro con la racchetta di Paolo “il caldo”. “Scaramanzie? Infinite, come i fioretti, i tic, passarmi la mano tra i capelli. Durante il match, per un punto, avrei barattato qualunque cosa della mia vita. L’obiettivo prima di tutto. Con un punto debole: non sopportavo l’attesa. Trovavo devastanti momenti precedenti la mia partita, stare lì negli spogliatoi, gli odori, i pensieri, i rumori, la solitudine”. Sempre quella. “Una vera scuola di vita, devi contare solo su te stesso. È quello che insegno ai ragazzi che alleno”.
SOLO RAGAZZI, NIENTE RICCONI in cerca di un nome, basta con i circoli (“non fanno per me”), stop alle esibizioni con gli over (“troppi matti”, detto da lui...) solo piccole leve “alle quali trasmettere il piacere del gioco, farli divertire, imparare anche dai miei errori”. Capitolo rimpianti, con il “se” perfetto per disegnare autostrade della gloria: “Sì, dovevo stare più calmo. Ma anche fisicamente non sono stato fortunato”. Il bollettino recita: quattro operazioni alla schiena, altre sette sparse per il resto del corpo, una sorta di carta geografica degli acciacchi. “Però mi sono divertito, anche se sono stato un atleta serio. Sì, serio, anche se molti non ci credono, quindi niente alcol durante i tornei, a letto presto, allenamenti continui, in fin dei conti dovevo sopperire a un fisico non prestante. Cosa? Va bene, arrivo...”. Lo chiamano al dovere, ha una lezione, disciplinato va. Ora vive a Bergamo, a maggio si è sposato per la seconda volta, ha un figlio di nove anni e i capelli notevolmente più corti. Quando parla ama tenere i toni bassi, ama prendere le distanze da certi eccessi, non rinnega il tennis, anzi “mi dà fastidio Agassi quando scrive: lo odio. Come si può disprezzare la nostra fortuna?”. Non si può, soprattutto “se nasci in una famiglia semplice come la mia. Adesso vado via realmente”. Bene, arrivederci professor Canè.