Federico Fubini, la Repubblica 10/9/2013, 10 settembre 2013
IL POTERE NON È DONNA
Non succede spesso che qualcuno dall’Italia sia invitato in giro per il mondo per spiegare com’è avanzato questo paese. Non di questi tempi. Sarebbe dunque solo umano se, quando è stata chiamata alla Borsa di Tel Aviv, Joyce Bigio si fosse chiesta se davvero gli investitori volevano ascoltare proprio lei. Non che Bigio non abbia qualcosa da raccontare, perché a modo suo fa parte di una generazione di pionieri. Mentre l’Italia introduceva la nuova legge per far salire la quota di donne ai vertici delle società quotate, questa manager italo-americana è entrata nel consiglio di amministrazione di Fiat Spa. Il suo ingresso nel gruppo di Torino è stato solo un passaggio di un movimento più ampio che, per una volta, sta spingendo il paese dalle posizioni di coda alle parti alte di una classifica globale. Solo un anno fa le donne nei board delle società del Fste Mib, il principale listino di Milano, erano circa il 7 per cento del totale; adesso sono già salite attorno al 20 per cento, secondo le stime dell’associazione Valore D: un progresso fulmineo per i ritmi del cambiamento in Italia, da molto sotto a un po’ sopra la media internazionale.
Anche gli israeliani volevano sapere come si fa, ma magari la loro curiosità sarebbe subito scemata se avessero avuto il colpo d’occhio di Villa d’Este l’altro ieri. Il premier Enrico Letta ha visto il panorama del convegno ed è andato su tutte le furie: «Non vedo donne e questo è insopportabile, perché l’Italia non è fatta solo di uomini», ha esclamato. Grisaglie di mezza età avanzata dominavano la platea, al punto che ancora ieri gli organizzatori del Workshop Ambrosetti non erano riusciti a calcolare la percentuale di donne in quel gruppo di 200 manager. Episodi così fanno pensare che dietro la rincorsa nei board dei gruppi di Piazza Affari c’è forse meno di quanto non sembri. Le top manager per esempio sono sotto il 10 per cento, fra i livelli più bassi al mondo. E del resto il confronto globale vive anche di volti e simboli, non solo di numeri. Negli Stati Uniti il direttore operativo di Facebook Sheryl Sandberg e Marissa Mayer, che un anno fa prese il timone di Yahoo da un’altra donna come Ursula Burns, sono più che semplici casi di successo. Sono magneti che lavorano sottilmente sulla psicologia di una nazione. Sandberg lo fa deliberatamente, senza rinunciare a un ruolo (anche) politico e ai suoi libri dedicati agli ostacoli per le carriere femminili.
Niente del genere sembra dietro l’angolo in Italia. Né appare vicino il giorno in cui questo paese sarà pronto ad affidare a una donna un ruolo di primissima fila nella gestione dell’economia e del sistema finanziario. Siamo in questo indietro anche rispetto ai paesi cui ci ispiriamo di più. In Francia un leader conservatore come Nicolas Sarkozy ha chiamato Christine Lagarde come ministro dell’Economia e l’ha poi sostenuta per assicurarle il ruolo di vertice del Fondo monetario internazionale. Non che per Lagarde a Washington tutto sia facile. L’Fmi accettò che Dominique Strauss-Kahn si dedicasse ai comportamenti per i quali va famoso, e lo fece in silenzio. Invece l’ironia verso Lagarde è spesso feroce e gratuita: «Non capisce l’economia»; «nella settimana di assemblea del Fmi va dal parrucchiere tutti i giorni»; «si lascia dettare i programmi dal suo stesso staff». Vero o falso, non era mai stato detto di nessun direttore generale del Fondo prima di lei. Neanche dei (molti) maschi e mediocri.
Che neanche negli Stati Uniti sia facile essere donna nel sistema finanziario, del resto, lo sta sperimentando in prima persona Janet Yellen. Vicepresidente della Federal Reserve, ora candidata al posto di numero uno, Yellen è incappata in un editoriale del
Wall Street Journal e infiniti altri commenti che stendono obliquamente il dubbio sulla capacità di una donna di gestire il dollaro. Paul Krugman l’ha difesa, ma neanche il premio Nobel è riuscito a sradicare dal profondo delle menti di molti l’idea che solo un uomo può manovrare uno strumento potente come il denaro.
In questo anche la Banca centrale europea è un passo più indietro persino dell’Italia. Nel consiglio dei governatori, il gruppo di 23 persone che decide quasi tutto, non siede una sola donna: le 17 banche centrali dei paesi dell’euro esprimono tutte rappresentanti maschi e così è anche per i sei che siedono nell’esecutivo guidato da Mario Draghi. In fondo dall’inizio della storia fino a 40 anni fa, la moneta è sempre stata legata all’oro, il metallo che John Maynard Keynes definiva «un cimelio barbarico». E i barbari erano appunto tali. Draghi si è reso conto che questo squilibrio rischia di intaccare la capacità della Bce di farsi accettare da tutti, ed è corso ai ripari: ha indicato «obiettivi» - non rigide «quote» per la presenza di donne nello staff. Nel 2019 il 28 per cento dei top manager della Bce dovrebbero essere donne (oggi sono la metà), ma fra le righe dei regolamenti di Francoforte non è difficile scorgere qualche cautela nell’Eurotower. «Meglio avere semplici obiettivi - si osserva da Francoforte -. Le quote vanno applicate rigorosamente, poco importa quale sia la qualità dei candidati alle promozioni». E a parità di qualifiche fra un uomo e una donna, i criteri di genere possono entrare in gioco «potenzialmente».
Si è dunque perdonati, se dietro le scelte della Bce si leggono due timori inconfessabili. L’Eurotower sospetta che gli automatismi nelle promozioni di donne entro tempi certi portino a scegliere anche persone non qualificate (un’accusa mossa anche al primo sistema di quote applicato in Norvegia dal 2003); e i dipendenti maschi si sono innervositi perché temono di finire subordinati nelle selezioni da ora in poi.
Del resto questa non è una specialità occidentale. Le aziende con board o prime linee di manager più femminili si trovano fra i sistemi autoritari dell’Asia come Cina o Vietnam. In Vietnam le donne presero il controllo dell’economia mentre gli uomini combattevano gli americani nella giungla, e non l’hanno più ceduto. In Italia si spera non serva una guerra per avere un colpo d’occhio meno grigio nella sala di Cernobbio. Ma, per ora, non è detto.