Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  settembre 10 Martedì calendario

DA ANDREOTTI AL CAVALIERE IL DRAMMA DEL POTERE NEL CORTILE DI BORROMINI


«IL CORTILE di Sant’Ivo alla Sapienza — annuncia l’Ansa alle 15.19 — è letteralmente preso d’assalto da fotografi e giornalisti». L’agenzia Dire segnala che c’è anche la tv della Corea del Sud; un flash de Lapresse integra con quella cinese e giapponese.
A questo punto, anche per la gioia dei telespettatori d’estremo oriente, occorre aggiungere che si tratta di uno dei luoghi più belli non solo di Roma, ma del mondo. «Più solenne di così, si muore» osserva Paolo Portoghesi, che del Barocco e di Borromini resta uno dei massimi studiosi.
Detta altrimenti: questo cortile, che in verità nel 1642 Borromini si trovò già impostato e almeno in parte realizzato da Giacomo della Porta, dispone comunque del più meraviglioso e fantastico fondale che la storia dell’architettura abbia mai previsto per un evento che, come si intuisce in questi giorni, ha anche una sua indubbia drammaticità.
Già l’abside, spiega Portoghesi, richiama un luogo di giudizio. Ma la chiesa si staglia lì davanti, a balzi e soprassalti, illusioni e vertigini, come il segno della perfezione divina che nessun potente riuscirà a eguagliare. Osservando lo slancio della spirale, la guglia, il campanile a pungiglione, la sfida al cielo, la porta verso l’assoluto, verso l’infinito, ecco che ogni avventura politica, anche la più avvincente — e quella berlusconiana lo è — ogni potere diviene povera cosa. O meglio: è in questo splendore di linee e di prospettive che si rivela tale.
Comunque uno scenario degno per il Cavaliere, «anche se non so se meritato» chiosa Portoghesi. Chissà se i poveri senatori, presi dal loro arduo compito, hanno tempo, modo e disponibilità d’animo per rendersi conto della pianta a stelle, delle triangolazioni cosmiche, del sigillo di Salomone, della cupola che attirò quattro fulmini in poco più di trent’anni, della sua struttura elicoidale a conchiglia, delle api dei Barberini e magari anche del genio emotivo e irrequietissimo di Francesco Borromini, morto tragicamente di spada, ma suicida.
Ma certo tutto questo aumenta il peso delle decisioni che da quelle parti stanno per essere prese, e rispetto alle loro conseguenze varrà la pena di notare che ancora una volta Roma fa da grandiosa e specialissima quinta ai turbolenti sviluppi della storia, anche dilatando a dismisura la parola di questi giorni, «decadenza », e proiettandola su un’altra e più vasta dimensione.
Oltretutto questo stesso luogo, vent’anni fa, testimoniò lo spaventoso esaurimento di un altro potere, quello della Prima Repubblica, mettendo in scena la gogna di Giulio Andreotti che nell’aprile del 1993, solo, traballando fra microfoni e telecamere, la nuca arruffata e una cartellina sottobraccio, due o tre volte dovette attraversare quel cortile per essere interrogato sulla mafia e il bacio di Totò Riina.
Qui, sotto i maestosi portici che preludono all’ingresso dell’Archivio di Stato, si riunivano prima della seconda guerra mondiale i laureati cattolici. Andreotti e Moro erano di casa. Del primo si è detto; del secondo, nel maggio scorso sono stati esposti gli originali restaurati di 11 lettere dal carcere dei terroristi, compresa quella che dice: «Se voi non interverrete, sarebbe scritta una pagina agghiacciante nella storia d’Italia. Il mio sangue ricadrà su di voi...». Sembra incredibile come a Roma i palazzi, le chiese, i paesaggi, le circostanze, i rivolgimenti dell’ordine e del disordine si annodino gli uni con gli altri a discapito di ogni scontata e riposante stabilità.
Così, se non bastasse, si rende noto che nel febbraio del 1968, con la mezza complicità di Portoghesi che si fece aprire una certa botola, alcuni studenti di architettura pensarono bene di salire in cima alla chiesa e nella cuspide fecero il nido, per una notte o due, come gesto di poetica contestazione, da allora prendendo il nome di «Uccelli».
Forse farà piacere ad alcuni sapere che San’Ivo, bretone di nascita, è il patrono degli avvocati. Ma il consesso che in origine si riuniva lì dentro eleggeva un difensore destinato — e a questo punto Portoghesi non riesce a trattenere un educatissimo sorriso — ai poveri, il che stride con il ricco collegio di legali che lo stesso Berlusconi non perde occasione di additare come assai esosi. A quella antica figura di avvocato concistoriale, d’altra parte, fa riferimento in un sonetto anche Giuseppe Gioachino Belli con uno scetticismo che negli odierni frangenti non gioca esattamente a favore del Cavaliere: «Per carità, non mentovà (non menzionare, ndr) Sant’Ivo!/ Ché Sant’Ivo o Sant’Ovo, a sto paese,/ dillo un prodiggio si ne scappi vivo».
E un po’ viene da pensare al «plotone d’esecuzione» evocato ieri sera da Schifani, che da presidente del Senato ha cercato di stringere legami tra Palazzo Madama e quella chiesa di straordinaria fattura, spesso invitandovi importanti cardinali a dir messa, a beneficio quasi esclusivo dei senatori, sempre che qualche utile sollievo abbia loro arrecato.
C’è chi trova in quelle forme richiami al gotico del Duomo di Milano, o alle rappresentazioni pittoriche della torre di Babele o del Faro di Alessandria, ma l’energia stupefacente, per chiunque, sta nel gioco eccezionale di superfici concave e convesse. A quest’ultimo proposito, e con temerario accostamento, conviene forse ricordare che nei propagatissimi segreti del marketing berlusconiano c’era il consiglio di farsi concavi o convessi a seconda dei clienti. «Lì c’era un’idea commerciale — nota Portoghesi — qui spirituale». Coreani, cinesi e giapponesi possono, insieme con gli italiani, farsene una ragione.