Franco Giubilei, La Stampa 10/9/2013, 10 settembre 2013
QUANTA RABBIA SI SFOGA IN UNA STANZA
La «Camera della rabbia» dove sfogare i miei furori mi aspetta in un capannone immerso nella campagna forlivese. Cristian Castagnoli, il titolare 35enne, sulle pareti ha fatto disegnare delle immagini in stile street art, con un tizio barbuto dall’aria arrabbiata per evocare meglio lo spirito della cosa. Il soffitto è ricoperto da una rete, onde evitare che cocci e frammenti saltino nella stanza vicina.
«Qui viene gente dai 18 ai 40 anni, uomini e donne in egual numero, ma le ragazze sono le più scatenate», racconta Cristian, che ha aperto la prima «Camera della rabbia» italiana tre mesi fa, sul modello di esperienze simili nate fra Messico, Usa, Inghilterra e Francia. «C’è chi viene a scaricare lo stress di una giornata di lavoro, chi è arrabbiato perché è in cassa integrazione o disoccupato, ci sono addii al celibato o al nubilato, a volte vengono in due-tre e si sfidano a chi fracassa più roba. Per un’ora si spendono 35 euro, compreso il filmato».
Nello spogliatoio comincia la vestizione, anche perché non si può frantumare a colpi di mazza bottiglie e mobili senza una corazza adeguata: Cristian mi fa indossare scarpe antinfortunio, ginocchiere, protezioni per le braccia, gomitiere e guanti. Il tocco finale sono maschera ed elmetto da soft air di colore nero. Simile all’incrocio fra un black bloc e Darth Fener, entro nella stanza dell’ira, un ambiente arredato con vecchi mobili a scaffale, una sedia, due vetrinette, un paio di damigiane di vetro, una ventina di bottiglie e un sacco da pugilato. Allineata, una fila di mazze in ordine distruttivo crescente: quella da baseball per le bottiglie, quella media metallica da 3,5 kg e quella più pesante da 5 chili e mezzo, per fare a pezzi i mobili.
La porta si chiude dietro di me, la calura sotto l’elmetto è notevole, mentre l’impianto stereo spara un vecchio brano rap che mi sembrava il giusto accompagnamento per l’occasione. Impugno per prima la mazza da baseball e comincio a far fuori le bottiglie. Mi sento vagamente ridicolo, ma al terzo vetro in frantumi ci prendo gusto e proseguo metodicamente a spaccare tutte le bottiglie. Quelle di dimensioni normali esplodono senza problemi, ma uno stramaledetto magnum fa resistenza, quindi decido di passare alle maniere forti e vado alla mazza da cinque chili: macché, il magnum sguscia via, allora mi rivolgo al mobilio e qui la lotta si fa dura. Già, perché un conto è spaccare bottiglie, che danno soddisfazione andando in mille pezzi col minimo sforzo, e tutto un altro è sfasciare una libreria costruita come le facevano una volta. Un colpo la incrina, il secondo fa volare le prime schegge, finché non diventa una prova di forza fra me e il mobile. Uno dopo l’altro gli scaffali cedono. Il pavimento è un tappeto di cocci di bottiglia: avrò pure le ginocchiere, ma la prospettiva di scivolare sui frammenti taglienti mi agghiaccia. All’improvviso mi ricordo delle damigiane e vibro una serie di bastonate, con scoppi coreografici di vetri verdi. Che mi resta? Ah già, la sedia. Alzo la mazza a due mani e la vibro sullo schienale. Il caldo e la fatica stanno per avere il sopravvento. Dopo un quarto d’ora di bastonate - il tempo medio di permanenza nella camera - mi arrendo alla fatica e al non senso. Fuori dal capannone una catasta di mobili usati attende i prossimi clienti.