Stefano Semeraro, La Stampa 9/9/2013, 9 settembre 2013
PIETRANGELI, 80 ANNI DI FASCINO “I TENNISTI DI OGGI SONO MATTI”
Due volte campione al Roland Garros, eroe di Coppa Davis sia da giocatore sia da capitano (fu lui a guidare gli azzurri in Cile nel ’76). Sorriso da attore, rovescio incantevole. Nato a Tunisi da mamma russa, ma romano nel cuore: Nicola Pietrangeli è stato il volto vincente e scanzonato del tennis nell’Italia della Dolce Vita e del boom. 80 anni vissuti alla grande fuori e dentro il campo.
Pietrangeli per i prossimi 80 che intenzioni ha?
«Spero solo che mi rifacciate la stessa domanda fra 10 anni ».
Cosa l’ha avvicinata al tennis?
«Mio padre. Fino a 10 anni giocavo a pallone nei ragazzi della Lazio, ero bravo. Sono stato prestato alla Viterbese e alla Ternana. Adesso i calciatori prendono tanti soldi, ma all’epoca io volevo viaggiare, col pallone lo si faceva poco mentre avevo intravisto nel tennis un modo per girare. Una volta sono andato a Napoli e mi son detto: “Vuoi vedere che arrivo fino a Milano?”».
Si ricorda la prima partita?
«In campo di concentramento, in Tunisia. Mio padre ci si trovava insieme con tanti altri italiani, aveva costruito un campo da tennis. Una volta andai a trovarlo e giocammo insieme la finale di un torneo fra prigionieri. Vincemmo, il premio fu un pettine fatto con le schegge di bombe. Era il 1945».
Quando arrivò in Italia la chiamavano “Er Francia”...
«Non parlavo una parola di italiano, solo francese e russo. Diciamo che ho dimenticato il russo per imparare male l’italiano».
Com’era l’Italia a quei tempi?
«Fantastica. Rispetto a oggi era tutto 100 volte più semplice, ma ti gustavi tutto 100 mila volte di più. Il bacio di una ragazza era il paradiso. I ragazzi di oggi dovrebbero tornare indietro di 50 anni e vedere come ci si dava una mano».
Il tennis come è cambiato?
«Noi giocavamo soprattutto per divertimento, era un modo per viaggiare, conoscere gente e belle ragazze. Gli atleti di oggi non se lo possono permettere, una partita vale magari 500mila dollari. Oggi farei come Federer e Nadal. Finisci la carriera con 100 milioni di euro in tasca e a 32-33 anni ti dai alla bella vita».
Quali match la divertono ancora?
«I doppi. Noi una volta giocavamo singolare, doppio e misto, tutto in cinque set, molto spesso lo stesso giorno. Oggi hanno 14 massaggiatori, lo psichiatra, lo psicanalista, il dentista, il veterinario. Mi sembrano pazzi, un po’ come i calciatori che oggi vivono nella bambagia. Ogni tanto sento dire: ‘poveri, hanno giocato due volte questa settimana”. Ma quando vanno a prendere l’assegno a fine mese non sono poveri».
A proposito: è vero che ha inventato lei il calcetto in Italia?
«Mettiamola così: sonouno dei 10 che nell’inverno ‘48-49, al tennis Parioli in viale Tiziano, siccome pioveva e non sapevano che fare, sono andati su un campo e hanno messo due sedie per fare le porte. Così è nato il calcetto».
Confessi: avrebbe preferito fare il calciatore?
«A Rivera, di cui sono molto amico, un giorno ho detto: ‘non sai che fortuna hai avuto: se avessi giocato io…”. Mi sono allenato 3 anni con la Lazio di Maestrelli, una volta litigai con Re Cecconi, perché secondo lui non gli avevo dato bene la palla. ‘Luciano, gli risposi, ma ti rendi conto di che complimento mi stai facendo?».
Lei hai battuto Rod Laver, e ha visto giocare Federer: chi è più grande?
«Non ho mai incontrato Federer, che gioca a tennis come pochi, forse come nessuno. Però sono d’accordo con molti vecchi giocatori: su una partita secca Lew Hoad avrebbe battuto tutti. Anche Federer e Laver».
Chi è il Pietrangeli dei nostri tempi?
«Fognini gioca bene, solo che fa incazzare. Anch’io ogni tanto facevo arrabbiare perché sembrava che non ne avessi voglia. E’ questione di carattere, ma oggi il tennis è un mestiere, e non ti puoi più permettere certi “vuoti d’aria”».
Una partita che rigiocherebbe?
«La semifinale con Laver a Wimbledon, quando ero avanti due set a uno. Con Laver ho giocato sei o sette volte, ma una sola sulla terra, a Torino. Rod vinse il primo set, poi rimediò 4 game in tre set».
Il suo rapporto con Panatta?
«Un talento straordinario, nato per il tennis. L’unica cosa che non gli perdono è che non doveva permettere che mi cacciassero da capitano di Coppa Davis».
Meglio lei o Adriano?
«Non c’è partita! (ride, ndr). Basta guardare i risultati...».
Ma alla sua epoca i più forti erano fra i professionisti.
«Quei professionisti, tranne Hoad e Rosewall, li ho battuti tutti. Anche Pancho Gonzalez, in un’esibizione al White City a Sydney davanti a 6.000 persone: 6-4 6-4, quando lui era n. 1. Io e Adriano abbiamo giocato contro, ma io avevo 17 anni di più e ho perso due volte 6-4 al quinto…».
Lei, Berruti, Benvenuti, Thoeni, Panatta, Mennea: avete contribuito a dare un’identità all’Italia attraverso lo sport?
«Non lo so. Oggi contano solo i calciatori. E’ un peccato. L’italiano non è uno sportivo, è un tifoso. In Italia tutto va in malora ma il calcio non si tocca. Ho visto Juventus-Lazio di Coppa Italia: uno spettacolo da 10 euro. E ne dovrei pagare 250? Se vado al cinema mi diverto di più. Questo è il paese più bello del mondo. Peccato ci siano gli italiani»