Marco Vallora, La Stampa 9/9/2013, 9 settembre 2013
QUANDO IL CLASSICO SI FA POST
Una premessa doverosa al visitatore, a chi crede veramente nel senso del «vedere» le mostre, e non al pressapochismo turistico della spruzzatina alla giapponese. Per compiere il doveroso e gradito «bingo» delle opere disseminate ed occultate (circa una ventina) nel territorio amplissimo del Foro Romano Palatino non basta certo un’oretta rada, come consigliano all’entrata, lucrando sui biglietti. Non tutti gli artisti convocati hanno la vistosità spettacolare e sgargiante della «prefigurazione» ingigantita della Venere degli stracci di Pistoletto, annidata entro una disfatta navata del Tempio di Venere. O la prometeica sfacciata ubris metallica degli scudi solari di Paladino, che gridano la loro grifagna rivolta sannita proprio in faccia al voluminoso carapace del Colosseo. È vero che nell’articolato volume Electa il curatore Vincenzo Trione suggerisce metaforicamente che «forse bisogna imboccare sentieri segreti, segnati da traiettorie privilegiate», ma quando uno ha i minuti contati dai ricatti riottosi delle guardianie, nessun aiuto che venga da una piantina (ci sono, generiche sul Foro, ma guai a distribuirtele!) e nessuna segnalazione mai dei luoghi «vampirizzati» dalle installazioni ti monta un dispetto, che rischia di penalizzare il gusto dell’agnizione e che consiglia appunto d’avvertire il visitatore appassionato di tenerne conto. Se no la visita trafelata perde d’ogni senso.
E dire che i funzionari-filologi, abituati a studiare la magistrale segnaletica della romanità, dovrebbero sapere che i cippi non si mettono davanti all’opera ormai trovata, come irritante didascalia tardiva, ma in prossimità del bivi traditori (Ercole plaudendo, sardonico). Questo per sottolineare che, nell’originale progetto di Trione (che è più di una generica curatela) il rapporto-dilemma si pone proprio tra confusa modernità burocratica dell’oggi, e persistenza del classico, ma non quello asfittico-museale della conservazione beota del pezzettino museificato. Qui l’orma-ombra del museo (il calco della testa dell’estasi di Bernini, velata da Parmiggiani, che non vuole vedere l’obbrobrio del gallerismo imperante, o l’acquea memoria d’ex-voto degli ectoplasmi di Biasiucci cangianti al variare della luce) diventa sorgente depistante, provocazione lacerante: serbatoio d’interrogazioni. Non un neo-classicismo asfittico, dunque, alla pseudo-winckellman anacronisticheggiante (sono esistiti anche loro, ormai datatissimi, i neo-antichi; anche se le parole d’accompagnamento di Calvesi vivono ancora) ma appunto, per dirla con Trione, un post-classicismo nicciano, inquieto, vivo, aperto, ferito, rotto, fecondo.
Nelle sue parole: post-classicismo, per esorcizzare quella clausola, ormai stantia, del postmodern agonico e collassato. Ma le sue frecce, tutte da condividere, sono scagliate soprattutto contro quel «post-dadaismo glamour», che ormai non si sopporta più, e che più da sciampista che non da duchampisti, duri a cedere la preda mercantile e comunque, protetti dai guardiani inesorabili ed interessati del sindacalismo avanguardistico. Qui l’aria e l’aura è cambiata, per fortuna: e questi artisti, più o meno classici, «nati sotto Saturno» e nutriti alle poppe d’atlante-menomosino di Warburg, vivono da sempre tra le rovine grandiose della feconda nostalgia di qualcosa, che forse non è mai esistito. Rovine «mentali» alla Simmel: «Tra il non ora e il non più, tra l’eterno divenire dell’anima in lotta con se stessa e l’appagamento formale», tra la forma che non si ferma, ed il fluire del tempo, che è eterno sottrarsi. Allora non ci stupisce che il «ton ton», in stile antico-borrominiano, di Trione, ci guidi, curvando da Perec a Pontiggia, da Kundera a Rosalind Krauss, da Citati a Barthes a Baricco, da Augé a Settis a Fumaroli, a scoprire via via questa non Via Crucis, ma Via Crucifige (la stupidità di certa arte, nulla, di oggi). Passando dal perimetro sacro della cornice vuota, a terra, di Kounellis, costellazione di frammenti dell’antico; alla sonante casetta aurea di Botta, ove l’acqua che scorre racconta all’infinito la «nostalgia di una nostalgia». Dalle imprendibili figure magmatiche dei torinesi Alis/Filliol, alla masticata archeologizzazione dei messaggi mediatici di Colin, diventati vorticanti reperti evocativi. Dai mesmerici calchi pompeiani di Longobardi, ai respiranti fantasmi filmici di Aquilante, labili, proiettati sotto il sole disfacente, sino alle magnetiche maschere di Jodice, con abissali occhi vuoti che «contengono ed evocano la mia inquietudine». Perché sono belle e intense anche le risposte che gli artisti hanno rimbalzato su Trione. Maestro della disparizione, come sempre, Paolini, che si domanda «è possibile descrivere qualcosa che non si rende però visibile?», contraddicendosi poi magnificamente.