Enrico Sisti, la Repubblica 9/9/2013, 9 settembre 2013
JESSE PER SEMPRE
Ciò che più fece indispettire Hitler fu la pubblica compiacenza del tedesco Luz Long. Al Führer non sfuggì quel braccio sulle spalle del giovanotto nero che imbarazzava la Germania. Il nonno di quel giovanotto era stato uno schiavo. La scena venne ripresa da Leni Riefenstahl e finì su “Olympia”. Qualcuno doveva essersi dimenticato di avvertire Goebbels. Pare che all’uscita del film, due anni dopo, il ministro fosse furioso: «Concessione intollerabile». Berlino 1936.
«Jesse aveva delle difficoltà nella rincorsa del lungo», raccontò Long. Ogni volta la terra rossa gli restituiva sensazioni diverse. Luz conosceva la pedana dell’Olympiastadion: «Sii più morbido nei primi appoggi!». Jesse eseguì: «Non era mai contento dei propri risultati, era felice solo quando si migliorava», racconta Dorian Harwood che lo impersonò in «Jesse Owens Story», il film uscito nel 1984, quattro anni dopo la sua morte. Jesse ottenne la qualificazione all’ultimo salto e vinse la gara (era la seconda delle quattro medaglie d’oro). Il presidente del Cio, il belga Baillet- Latour, successore diretto di De Coubertin, suggerì ad Hitler di non premiare personalmente nessun atleta. «Hitler fece un gesto con la mano, io risposi », raccontò Jesse. Non fu tanto peggio di quel che fece Roosevelt pochi giorni dopo in campagna elettorale: cancellò un incontro con Jesse per timore che gli elettori bianchi degli stati del sud gli voltassero le spalle.
Con Luz rimasero amici, si scrissero sino all’inizio della guerra. Nel ‘43 Luz morì combattendo in Sicilia: «La grandezza di mio padre», racconta Marlene Owens Rankin, la 74enne figlia di Jesse che la Owens Foundation, «non fu tanto come atleta, ma dopo, quando cominciò a insegnare e a far crescere i bambini (a Chicago dove si era trasferito, ndr). Forse mio padre è superato come atleta, anche se fu il primo a correre alle velocità degli atleti moderni (10’’2 nei 100, 20’’7 nei 200, 8,13 nel lungo, ndr). Ciò che resta è il sentimento: ecco, mio padre è un sentimento dell’America libera». Un anno prima delle Olimpiadi in cui vinse quattro medaglie d’oro (100, 200, lungo e 4x100) Jesse aveva fatto strage di record: il 25 maggio del 1935, nel Michigan, nel giro di circa un’ora conquistò i record del mondo di salto in lungo, 220 yards in rettilineo e 220 yards a ostacoli. In queste ultime due gare i tempi valevano anche come record sulla corrispondente distanza metrica, quindi migliorò cinque primati.
Ma Jesse non era nato per correre. Era nato rachitico. Era nato per miracolo il 12 settembre (Owens Day e Mennea Day) di cento anni fa a Oakville, Alabama. Il settimo figlio di Emma Fitzgerald e di Henry Owens, che di figli ne ebbero dieci (Prentice, Johnson, Henry, Ernest, Quincy, Sylvester, Ida, Josephine, Lillie e Jesse) non doveva sopravvivere. L’ultima stagione del raccolto (cotone, mais) fu drammatica. Aveva piovuto troppo, aveva fatto troppo caldo, i campi s’erano prima allagati e poi bruciati. Le entrate dei mezzadri Owens non erano sufficienti per comprare da mangiare, i vestiti, le medicine. E poi quel corpo inadatto, piccolo, fragile. Vissero momenti atroci. Jesse stava sempre male. Tenevano il piccolo avvolto in un panno di cotone davanti al caminetto. Aveva la polmonite, gli spuntarono delle vesciche su tutto il corpo. Tossiva, sudava e piangeva. A volte faceva dei respiri da adulto, mostruosi, in altri momenti era come se non respirasse più: «Più di una volta mio padre e mia padre credettero che fossi morto». Poi si riprese. A sei anni la piccola antilope d’ebano riusciva a percorrere ogni giorno dieci chilometri per andare a scuola: «Correre mi piaceva ma non potevo». Cominciò a gareggiare nel ‘28. Smise presto, a 25 anni. Si dedicò alle esibizioni per potersi guadagnare da vivere. In due anni aveva cambiato la storia dello sprint.
Quando Jesse nacque il razzismo non esisteva: semplicemente bianchi e neri non erano considerati della stessa specie. I neri nascevano separati, vivevano segregati, li seppellivano in cimiteri distinti. Tutto è cambiato? Non proprio. Tre anni dopo la morte di Jesse la commissione della Lawrence County si rifiutò di concedere il permesso di sistemare la lapide commemorativa davanti al tribunale della contea: meglio nascosta a Oakville. La Ohio University (in Ohio Jesse iniziò la sua carriera di velocista) ha organizzato una mostra celebrativa: «Abbiamo avuto migliaia di visitatori», racconta l’organizzatrice Tamar Chute, «per i fondi che avevamo a disposizione è stato un successo».
Esprimeva qualcosa di maestoso, leggerezza e potenza. Una bellezza in movimento che sradicava la terra rossa. Allora i chiodi delle scarpette erano lunghi come aghi: «Ma lui sembrava che già corresse su una superficie elastica», disse Berruti. «Nessun atleta ha simboleggiato in modo così struggente la lotta contro la tirannia, la povertà e il razzismo». Queste le parole del presidente Carter davanti alla nazione il giorno della sua morte (31 marzo 1980). Se l’avesse sentito Jesse gli avrebbe risposto: «Grazie presidente, ma c’è ancora molto da correre».