Anna Bandettini, la Repubblica 8/9/2013, 8 settembre 2013
SERENA DANDINI
Il giardino che circonda la villetta d’epoca, nel cuore di Monteverde vecchio, uno dei più bei quartieri di Roma, quello di Pasolini e dei Bertolucci, è il suo orgoglio. «Guardi questa magnolia davanti all’ingresso: supera il tetto e i rami quasi mi arrivano in camera da letto, al secondo piano. E che fiori che fa...». Serena Dandini entra in salotto dove un bocciolo bianco, fresco, in un bicchiere sul grande tavolino pieno di cose, riempie di profumo la stanza, luminosa, spaziosa, con le finestre aperte sul verde, femminile nel disordine coi tanti libri, i giornali, il computer acceso sul divano, i due scatoloni di cartone in un angolo con quell’aria di essere lì da sempre.
Cinquantanove anni, capelli corti e arruffati, struccata, in maglia e pantaloni, Serena è un brioso fiume di parole: legge ad alta voce pezzi di uno speech per una conferenza sulla violenza contro le donne, progetta la tournée di Ferite a morte, il toccante spettacolo contro i femminicidi da un anno richiesto ovunque, racconta di altre idee; è sicura, positiva, calorosa, carismatica, disinvolta, protesa al fare... «Che fa, prende in giro? — dice ridendo — Lo sanno tutti che noi donne abbiamo una capacità di lavoro mostruosa e siamo naturalmente portate a fare bene molte cose. Io poi ho una formazione freak-rinascimentale, a 360 gradi voglio dire, mi interessa tutto. La curiosità è un antidepressivo naturale».
È stata la prima conduttrice tv a usare l’ironia, la prima a fare la cacciatrice di teste tra comici e comiche, la prima a inventarsi uno show sulle donne (La tv delle ragazze, 1988), l’immagine della tv quando la tv trovava del tutto naturale essere colta, spiritosa, innovativa. «Dall’alto della mia età dico che quello che oggi manca alla tv — e che invece c’è nel web — è la voglia di raccontare le storie, le vite, piuttosto che riempire spazi. Non è sempre stato così. E io di anni ne ho passati in quella scatola. La mia professoressa di italiano, Bianca Maria Pisapia, Liceo Giulio Cesare, mi aveva segnalato alla Rai che cercava giovani. Mi chiamarono in radio. Erano gli anni Ottanta. Anche lì stava cambiando qualcosa e per le donne era arrivato il momento di inventarsi un loro stile. Ma io non avevo esempi. Sì, c’era Franca Rame, maestra di tutte noi, ma era tenuta fuori dalla tv. Mi sono inventata tutto da sola, compresa la factory di artisti con cui poi ho fatto Pippo Chennedy show, Avanzi, L’ottavo nano, Comici quando andai a Mediaset. Non è stata una passeggiata».
L’ironia l’ha ereditata dal padre. Ferdinando Dandini De Sylva era un avvocato, discendente di una antica famiglia della nobiltà romana di ascendenze spagnole. «Uomo spiritosissimo che ha vissuto da gaudente. Nel ’96 al suo funerale arrivarono persone mai viste a ringraziarci per tutto il bene che aveva fatto. Ha vissuto sperperando, con leggerezza ». E con leggerezza anche Serena porta l’impegnativo cognome. «Da ragazza, negli anni della contestazione, mi vergognavo. Non avere una famiglia proletaria o comunista mi sembrava una jattura. Una mia compagna di scuola aveva i genitori iscritti al Pci, “beata” mi dicevo, stavo sempre da lei. Ma alla fine forse è andata meglio a me perché appartenere a una famiglia dell’aristocrazia papalina decaduta mi ha molto aiutato negli alti e bassi della vita: le cadute non ti fanno paura». Le è capitato tante volte di cadere? «Come tutti». Ha sbagliato — e lo ricorda con serenità — quando ha deciso di fare su La7 The show must go off l’anno scorso in prima serata e di sabato, «buttando il cuore oltre l’ostacolo perché, una volta cacciati dalla Rai, non volevo che il gruppo che lavorava con me restasse a piedi. Ma la follia del sabato sera era proprio una follia, anche se la rivendico perché alla fine sperimentare è buono. Sennò fai sempre le stesse cose. Guai. Io non mi sono fatta mancare mai niente. Da giovane mi sono bevuta tutta la cultura giovanile del post Sessantotto, mischiando fricchettoni, comunisti, intellettuali, jazzisti e Folkstudio. Andavo al Piper a ballare con la minigonna che poi nascondevo in borsetta per correre al Filmstudio. Ho fatto le sedute di autocoscienza femministe, ho avuto amici militanti ortodossi e amici figli dei fiori. C’è stato tutto un periodo della mia vita in cui volevo fare la vita di campagna. Col mio secondo marito lasciammo Roma per quel genere di cose: cascina senza acqua, senza luce, senza telefono, l’orto, le galline, le api, le mucche, i cavalli... Finì quando capimmo che non si poteva vivere così. Mia figlia Adele nacque in quel momento, in Umbria, a Umbertide, e ne va fiera». Adele oggi ha trentun anni, vive a Londra dove ha studiato lingue orientali e fa la documen-tarista. Serena nel frattempo si è separata dal padre di Adele e dal ’93 il suo compagno è il musicista Lele Marchitelli (colonna sonora de La grande bellezza di Sorrentino). «Gli uomini si dividono tra quelli che accettano il confronto e quelli che al primo conflitto fuggono, come mi raccontano le amiche single». Lui da che parte sta? «Da quella giusta, figuriamoci. Vengo da una linea famigliare matriarcale. Mia nonna Leonarda ha fondato nel ’36 un istituto per ragazzi disabili a Roma quando i disabili venivano cacciati di casa o nascosti, e prendeva la nave per andare ai congressi in America. Ora tiene tutto in mano mia sorella Saveria, la vera star di famiglia. I maschi di casa, mio fratello Leonardo ingegnere, Lele, pur essendo tutti maschi alfa, sono uomini dolcissimi».
Con le donne Serena Dandini ha lavorato tutto quest’ultimo anno, con lo spettacolo Ferite a Morte. «Un anno fa Maura Misiti, la mia amica che fa la scienziata e si occupa di numeri e statistiche, mi ha mostrato i numeri della violenza sulle donne in tutto il mondo. Una strage, che prosegue se pensi che solo in Italia e solo quest’anno le donne uccise per mano maschile sono un centinaio. Una strage su cui c’è il silenzio, spesso anche dei media. Dove non arriva la scienza magari arriva la passione e la commozione, ho pensato. Così anche per rabbia ho cominciato a farmi dare delle storie di violenza realmente accadute e come in una Spoon River le ho ri-raccontate con la voce delle donne che le hanno patite, come per dare la loro versione dei fatti ma anche dignità a quelle vite. Le ho scritte alla mia maniera, creando un cortocircuito tra dramma e ironia, perché le donne sono ironiche». Ferite a morte è stato presentato la prima volta a Palermo il 24 novembre 2012 in ricordo di Carmela uccisa dall’ex fidanzato della sorella: lo spettacolo fu preparato in pochi giorni sull’onda dell’emozione e dell’indignazione di attrici e donne qualunque che si prestarono a leggere in palcoscenico ognuna una delle storie riscritte da Serena. E così avviene da un anno (nel frattempo è uscito anche il libro da Rizzoli), in ogni piazza dove è stata presentato, suscitando sempre emozione e rabbia. Una rivelazione, tanto da essere richiesta, dopo il Petruzzelli di Bari il 3 ottobre, il 19 novembre a Washington su invito dell’Osa, l’organizzazione degli Stati Americani in occasione della convention che vedrà insieme tutti i ministri delle Pari opportunità dei 34 paesi membri. E il 25, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, dall’Onu come evento ufficiale a New York. E ancora il 29 a Bruxelles al Teatro San Michel, il 3 dicembre a Londra alla Fondazione Reuters Thompson in occasione della Trust Women Conference con attrici e star internazionali. Con Ivan Cotroneo proprio a partire da Ferite a Morte, Serena sta anche scrivendo un progetto di fiction tv. «E pensare che era il mio anno di vacanza. Segno che fa bene non fare tv... Certo, condurre una domenica pomeriggio alternativa mi piacerebbe. E una mezza idea ce l’ho pure. Non rifarei Parla con me, anche se non lo rinnego perché di fatto con quel programma abbiamo costruito la fascia notturna. Con Geppi Cucciari stiamo anche pensando a un programma sulle “cattive ragazze”. È che mi diverte a scrivere, mi piace la viralità, la velocità del web... Chissà che la Rai si apra a cose nuove, ma il punto è che la politica lì ha divorato tutto, e il conflitto di interessi non ha fatto che amplificare i condizionamenti. Oggi perfino un truccatore deve essere di destra o di sinistra e della professionalità chissenefrega. Parla con me l’hanno chiuso con la scusa che il coproduttore era un esterno, in realtà perché gli autori me li volevo scegliere io. Censura, sì. Ma inutile incaponirsi, e poi io non sono livorosa. Una volta intervistavo la grande Annie Lennox: “Non ho paura di invecchiare — mi ha detto — ma di diventare amara”. Cadere nell’autocommiserazione mai. Fa male alla pelle. E i cambiamenti, gli sbagli, le cadute sono opportunità. Non ci sarebbe stato Ferite a morte, per esempio, che considero una delle cose più importanti di tutta la mia carriera».