Gilberto Corbellini, Domenica, Il Sole 24 Ore 8/9/2013, 8 settembre 2013
SOLIDA RIVOLUZIONE DELLA PLASTICA
Una delle prove portate a sostegno della tesi che cinquant’anni fa l’evoluzione economica e socio-culturale dell’Italia avrebbe potuto intraprendere un corso diverso, cioè più virtuoso, se solo avessimo avuto una classe politica all’altezza della sfida, è l’assegnazione, nel 1963, del Nobel per la chimica a Giulio Natta, in condivisione con il collega tedesco Karl Ziegler. In realtà, se si rilegge il capitolo che Alberto Cavallari dedica a Natta nel libro L’Europa intelligente (resoconto di un viaggio per incontrare i migliori cervelli d’Europa, pubblicato da Rizzoli nel marzo del 1963, quindi prima della decisione della Commissione Nobel), si scopre che proprio il chimico italiano prevedeva lucidamente il declino scientifico-tecnologico del Paese.
Il contributo di Natta alla ricostruzione dell’Italia nel secondo dopoguerra coincide, nell’immaginario collettivo plasmatosi negli anni Sessanta, con una delle scene simbolo (insieme a quelle che ritraggono la lambretta e la Cinquecento) del boom economico: il sorriso ammiccante del comico milanese Gino Bramieri, che nei Caroselli pubblicizzava con il tormentone «Emò emò emòemò! Emòemòemò Moplen!», il marchio registrato del polipropilene isotattico. Cioè dell’invenzione scientificamente e tecnologicamente più importante realizzata da Natta, e commercializzata dal 1957 dalla Montecatini per la fabbricazione di svariate suppellettili. Le ricostruzioni storico-sociologiche e storico-economiche della rivoluzione industriale e di costume innescata dall’invenzione di procedimenti di sintesi di nuovi polimeri alti a struttura macromolecolare stereoregolare, ricavabili da derivati della lavorazione del petrolio di basso costo, e quindi la scoperta e realizzazione di nuovi materiali pregiati nel campo delle plastiche, delle fibre e delle gomme sintetiche, ne parlano come del risultato di un ingegno tecnologico. Qualcosa dietro cui c’erano delle attività pratiche, piuttosto che un pensiero o una visione.
Le cose in realtà stavano in modo diverso: quel successo fu ottenuto grazie a investimenti per fare in primo luogo ricerca di base, collegata alla formazione di personale tecnico per sviluppare e favorire processi di scambio tra il contesto delle conoscenze di base e l’innovazione tecnologica.
La nascita in Italia di un’industria petrolchimica internazionalmente competitiva fu il frutto della collaborazione tra Giulio Natta e il manager Piero Giustiniani, che, dopo la guerra, assumeva il governo della Montecatini. Nel 1947 i due viaggiarono negli Stati Uniti, per studiarvi il livello tecnologico e la gestione organizzativa dell’industria chimica. Furono colpiti dal fatto che quell’industria impiegava migliaia di ricercatori, cioè investiva somme ingenti nella ricerca di base e nella formazione. E costatarono che era in corso una virata inarrestabile da sistemi produttivi che utilizzavano il carbone come materia prima, verso una chimica industriale basata sull’uso del petrolio (petrolchimica). Tornati in Italia, Natta e Giustiniani stipulavano un accordo di collaborazione per creare presso il Politecnico di Milano, un centro di ricerca avanzata, dotato di mezzi e personale adeguati, per sviluppare processi innovativi nel settore petrolchimico.
La Montecatini finanziava corsi di specializzazione in chimica organica alifatica per laureati, che consistevano in un anno di ricerca sperimentale e lezioni teoriche tenute da docenti del Politecnico e da tecnici dell’impresa. La valutazione finale non richiedeva relazioni o tesi, ma giudicava la capacità di impostare richieste di brevetti o scrivere articoli scientifici. I rapporti tra Montecatini e Istituto di chimica industriale diretto da Natta erano privi di formalità burocratiche, e Giustiniani acquistava tutte le apparecchiature necessarie all’istituto per la ricerca. I protagonisti di quel periodo ricordano che la fiducia di Giustiniani in Natta e nella ricerca e formazione di base aveva come effetto un entusiasmo che contagiava i capi dei diversi settori dell’impresa, stimolando una tensione verso l’innovazione e il continuo miglioramento delle produzioni in corso.
Nel 1953 Giulio Natta e i suoi collaboratori ottenevano, a partire da una reazione di polimerizzazione messa a punto dal chimico tedesco Ziegler e usando il propilene come reagente, una polvere bianca, cristallina e con un elevato punto di fusione. Esaminata ai raggi X, la struttura molecolare del nuovo polimero mostrava un elevato grado di cristallinità e le analisi confermavano trattarsi di una scoperta del tutto inaspettata e straordinaria, perché era stato ottenuto un livello di regolarità spaziale della macromolecola mai constatato fino a quel momento in natura. Per oltre un anno, si scatenava un’attività frenetica, volta a estendere il procedimento e a preparare e inviare le richieste di brevetti. Solo dopo un anno dall’esperimento cruciale usciva una breve lettera sul fascicolo del 30 marzo 1955 del Journal of the Americal Chemical Society, in cui si ipotizzava la struttura del polimero, a elica e con il periodo di tre unità monomeriche, e veniva usata una adeguata nomenclatura scientifica, chiamando "catene isotattiche" quei polimeri caratterizzati da una particolare stereoregolarità. La scoperta produceva più di 1200 articoli, di cui Natta ne firmava 540, e oltre 500 brevetti.
La prima produzione industriale di polipropilene isotattico aveva luogo nell’impianto XXIII della fabbrica di Ferrara nel 1957, solo tre anni dopo il deposito dei brevetti di prodotto e di processo. La Montecatini aveva acquisito dalla Pirelli, nel 1951, due impianti, costruiti negli anni Trenta a Terni e a Ferrara, dove si produceva gomma sintetica da butadiene. Le due strutture erano state ristrutturate e l’impianto di Ferrara sviluppava le applicazioni nel campo della plastica e studiava il miglioramento dei processi produttivi; mentre l’impianto di Terni lavorava su fibre e film plastici. Ne scaturivano i marchi commerciali del polipropilene conosciuti anche al pubblico con i nomi di Moplen (prodotto a Ferrara) per fabbricare oggetti in plastica, Meraklon per le fibre sintetiche, Merakrin per i fiocchi delle barche e Moplefan per gli imballaggi. Da quei materiali deriverà una parte significativa di prodotti di uso quotidiano o con cui veniamo regolarmente in contatto. Perché il modello industriale legato alla chimica e pensato da Natta e Giustiniani non ha avuto sviluppi? Di lì a qualche anno la Montecatini si sarebbe fusa con la Edison, per essere quindi smantellata nelle sue facilities di ricerca e capacità inventive. È ben noto che gli ingenti stanziamenti di denaro pubblico attraverso la Cassa per Mezzogiorno, con l’obiettivo di incentivare lo sviluppo produttivo del Sud determinava una proliferazione di impianti petrolchimici che in ultima istanza servivano solo a consentire un accaparramento dei sussidi statali e, implicitamente, anche la sistematica corruzione della classe politica da cui dipendeva il flusso di denaro pubblico. Il tutto senza alcuna logica di mercato. Come ricorda Giustiniani raccontando il declino della Montecatini: «Lo Stato non solo non ci aiutò, ma si mise a dare a destra e a manca capacità inutili di cracking. A Ravenna fu installata una capacità esuberante di azoto. La Edison per paura della nazionalizzazione si mise a fare cracking senza studiare il mercato. ... si creavano risorse contrarie. Fu un peccato». Olivetti, Montecatini, Eni, eccetera: sono vicende che hanno in comune l’inadeguatezza della classe politica e della "razza padrona", che invece di comprendere e favorire le nuove dinamiche di investimenti richieste dall’emergente economia della conoscenza, scelsero di perpetrare un vero e proprio "saccheggio" ai danni della finanza pubblica.
La morale è che la tesi per cui agli inizi degli anni Sessanta la storia dell’Italia poteva prendere una via diversa dal declino è un altro dei tanti miti storiografici, diciamo favole, coltivati da una generazione politica e professionale che in questo modo si autoassolve per l’incapacità di affrontare i problemi del presente. Senza rendersi conto di essere ancora mentalmente invischiata nella stessa logica culturale che àncora il Paese a una condizione di arretratezza civile: la mancanza di consapevolezza del ruolo che gli investimenti nella ricerca scientifica di base svolgono nel promuovere l’economia e il benessere nella società fondate sulla conoscenza.