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 2013  settembre 08 Domenica calendario

NOLA, 8 SETTEMBRE LA STRAGE DIMENTICATA


È un’atmosfera plumbea quella che grava su Nola subito dopo l’8 settembre 1943, nonostante la mitezza del clima e l’aria tersa della tarda estate. Da giorni si vive una tensione palpabile tra le truppe occupanti tedesche e la popolazione. Gli stessi militari italiani, chiusi all’interno della caserma Principe Amedeo, vivono in una dimensione sospesa tra l’incombente presenza tedesca e la mancanza di un vero e proprio vertice militare cui fare riferimento. E’ in questo contesto, e in circostanze mai del tutto chiarite, che si genera tra le truppe italiane e tedesche una controversia nata da una intimazione, da parte di queste ultime, a consegnare le armi, cui corrisponde una resistenza da parte degli italiani, prima verbale, poi militare. Un tenente tedesco rimane ucciso. Quella che era tensione latente diventa pericolosa dialettica tra una città occupata e gli occupanti. Le autorità militari italiane tentano un’estrema mediazione per evitare il peggio e mandano a parlamentare un tenente italiano che conosce il tedesco, il quale si avvicina agli acquartieramenti germanici preceduto da una bandiera bianca che, tuttavia, non lo salverà: una raffica di colpi lo lascerà esanime sul terreno.

I fatti che ne derivano sono noti come l’«eccidio di Nola» e si consumano il giorno 11, un sabato: le truppe tedesche, protette da carri armati si spingono fin dentro la caserma italiana ed esigono la consegna di dieci ufficiali italiani per «espiare» la morte del collega tedesco il giorno prima. Il tenente interprete – semmai questa contabilità avesse un senso – non va associato al novero: è in più. Gli ufficiali vengono inquadrati, poi inizia la macabra conta: tu, tu, tu … i soldati assistono terrorizzati alla fatale selezione dei loro superiori destinati al plotone d’esecuzione. Quando la conta si chiude la scena si sposta sulla piazza d’armi prospiciente la caserma: i soldati vengono fatti inginocchiare in un gesto di estrema sottomissione e in quella postura assistono alla fucilazione dei loro ufficiali.

La piazza piomba in un silenzio spettrale. Ma da dietro le finestre c’è chi sente chi, addirittura, si spinge dopo l’episodio a scendere in piazza e fotografare (e la foto esiste ancora) chi ricorda e preserva dentro di sé il senso e i dettagli di quella strage. Perfino chi ricorda che il tenente Enrico Forzati si è consegnato in sostituzione di un altro ufficiale che – disperato – diceva di avere tre figli (ma lui stesso ne aveva uno). Le salme vengono lasciate sulla piazza, a monito. Poi, alle quattro del mattino del 12 settembre, due falegnami di Nola vengono cooptati a forza e portati dentro la caserma per scavare una fossa in mezzo al cortile: lì depongono i cadaveri. Poi, sconvolti, tornano a casa, e raccontano. Fin tanto che la voce non giunge a mons. Raffaele Camerlengo, vescovo di Nola, che richiede le salme e le fa seppellire nelle tombe di famiglia di altrettanti cittadini del posto.

Come tante altre tragedie, anche questa viene se non dimenticata, rimossa: Nola (come l’Italia tutta) dopo la guerra vuole riprendere la vita e la ricostruzione. Sui morti della piazza d’armi cala l’oblio. Fino al 1997, quando uno di quei soldati costretti ad assistere in ginocchio all’esecuzione, Ugo Tebaldini, non scrive a Indro Montanelli che di questa strage parla, dunque, sul «Corriere». Una associazione culturale di Nola – gli Amici del marciapiede – decide da quel momento di recuperare la memoria di quella strage: una solenne Messa di Requiem viene celebrata nella chiesa del Gesù e, da allora in poi, il fatto viene ricordato per iniziativa dell’Associazione, del Rotary, dell’amministrazione comunale.

Il prossimo 11 settembre, a Nola, nel fantastico salone del museo archeologico si presenta il libro «Nola, cronaca dall’eccidio» (Infinito edizioni), lo ha scritto il magistrato e avvocato milanese Alberto Liguoro: una rigorosa ricostruzione storica ma anche un romanzo affidato ad una narrazione vibrante di forte impatto emotivo, dovuto al fatto che Liguoro è il figlio di uno degli ufficiali trucidati, il tenente degli alpini Alberto Pesce.

In questo dramma collettivo – dell’Italia, di Nola, dell’esercito italiano – si inserisce dunque la vicenda privata e commovente di questo tenente torinese, sposato ad un’altra giovane torinese, Marianna Agnona, che – a un certo punto – decide di seguire il marito di stanza a Nola, prendendo un appartamento a San Marco di Cavoti, lì vicino. Quando il tenente Pesce (che di professione era architetto) viene trucidato, a trent’anni, la moglie ventiseienne è incinta. Il bambino Alberto (stesso nome del padre) nascerà senza padre, la madre torinese resterà per un po’ a San Marco di Cavoti, ma morirà di malattia un mese dopo il parto. Il piccolo Alberto Pesce, verrà adottato dall’avvocato Ottorino Liguoro e dalla moglie Anna. Lui, torinese, vivrà a Maddaloni, studierà, diventerà magistrato, vivrà a Milano, avrà tre figlie. La benedetta ritrosia che salva i bambini dal peso della tragedia lo ha tenuto sempre distante dalla vicenda dei suoi genitori biologici. Fino ad ora, quando ormai è pienamente adulto, ha voluto scrivere il libro in cui affida alla nostra riflessione questa vicenda che appartiene all’Italia, a Nola, e alla sua sfera privata di bambino e di orfano.