Paolo Di Stefano, la Lettura (Corriere della Sera) 8/9/2013, 8 settembre 2013
CI RIPENSO, DUNQUE SONO
«Ho lavorato tutta la mattina alla bozza di uno dei miei poemi, e ho tolto una virgola. Al pomeriggio l’ho rimessa». Chi non ricorda l’autoironica confessione di Oscar Wilde? Un paradosso, ma neanche troppo. I veri scrittori tolgono, cambiano e aggiungono di continuo. A volte lo fanno anche a cose compiute, quando il libro ha già da tempo cominciato la sua vita pubblica, come è capitato a Michele Mari con il suo romanzo d’esordio, Di bestia in bestia, ripreso due volte ben dopo l’uscita del 1989. Ma gli esempi del passato sono numerosi: basti pensare alle numerose tappe che portarono Ludovico Ariosto a rivedere il piano dell’Orlando furioso per oltre dieci anni, fino a pochi mesi dalla morte e dopo molte ristampe. E Torquato Tasso riscrisse la Gerusalemme liberata chiamandola Conquistata per segnare lo scarto. Anche per Manzoni, come si sa, le progressive riscritture imposero un cambiamento nei titoli: dal Fermo e Lucia agli Sposi promessi ai Promessi sposi, con il travagliatissimo passaggio, per quest’ultimo, dall’edizione Ferrario 1827 alla cosiddetta Quarantana degli editori Guglielmini e Redaelli.
Insomma, letteratura è ossessione, e ossessione è insoddisfazione perenne. Non tutti lavorano in levare, come Mari. Per saperlo, non c’è bisogno di fare il nome di Carlo Emilio Gadda, che considerava provvisoria praticamente tutta la sua produzione narrativa, compresi i romanzi e i racconti già editi. Restando ai nostri anni, va ricordato il caso di Alberto Arbasino, il re della riscrittura, e non certo soltanto per la famosa serie di Fratelli d’Italia 1, 2 e 3 (Feltrinelli 1963, Einaudi 1967, Adelphi 1993): rifacimento quasi totale e per di più ampiamente accresciuto. Altro esempio: Antonio Moresco ha messo mano, a distanza di anni, a numerosi suoi libri, e Lettere a nessuno, transitando dall’edizione Bollati Boringhieri del 1997 alla seconda, Einaudi 2008, è quasi triplicato. Più spesso si procede con il bisturi, togliendo ripetizioni o aggiustando qua e là una svista dell’intreccio, un baffo del personaggio, un giro sintattico che non convince più. Come ha fatto Umberto Eco apportando qualche variante stilistica al Nome della rosa 1980, dopo tre decenni e trenta milioni di copie vendute. E si sa che qualche ritocco è sopraggiunto, dopo venticinque anni dalla prima uscita, anche per Il pendolo di Foucault.
Può anche capitare che a furia di cambiare venga fuori un libro nuovo. Così Italo Calvino, nel 1968, per il Club degli Editori mette insieme due libri di racconti precedenti (Le cosmicomiche e T con zero) ristrutturando l’intera raccolta, che avrà un titolo inedito: La memoria del mondo e altre storie cosmicomiche. Una nuova edizione garzantiana (1984), con il titolo Le cosmicomiche vecchie e nuove, è il frutto di una ulteriore revisione strutturale con notevoli aggiunte. Come Giorgio Bassani, anche Giuseppe Pontiggia è stato un altro instancabile rifacitore di se stesso con seconde edizioni rivedute e ampliate, quando non addirittura interamente rinnovate. Occorre anche una buona dose di lucidità e autocritica: «Mi sono reso conto che il testo presentava alcuni difetti non marginali», affermava nella Nota della Grande sera. Altre volte, le variazioni sono dettate dalle circostanze: dopo la prima edizione di Agostino (1945), Alberto Moravia potrà finalmente permettersi di sostituire con il «lei» il «voi» imposto dal regime fascista.
Non è certo come dare una mano di vernice ai muri di casa e neanche come sanare le crepe di un edificio invecchiato. È una questione di orecchio, che solo l’autore può valutare: è lo stesso Mari, nella nota finale alla nuova edizione, ad alludere alle Variazioni Goldberg eseguite da Glenn Gould. Certo, l’editore ha tutto il diritto (e anche il dovere) di dire la sua. Nel caso di Mari, non va dimenticato che Mario Spagnol gli aveva consigliato un energico editing sul manoscritto. Ne discusse a lungo con il giovane autore, che rispose: «Può darsi che lei abbia ragione, ma io non sentirei più il libro come mio». Spagnol cercò di aggirare l’imbarazzo, sottoponendogli le revisioni realizzate da «un altro scrittore» (curiosità: chi sarà mai?). Nulla da fare, Mari non mollò. Poi, nel 2004, cominciò a ripensarci e, senza renderne conto a nessuno, si mise ad asciugare e ritornò ad asciugare nel 2012. Il risultato del doppio intervento è l’attuale edizione Einaudi, che forse dà ragione (postumamente) a quel grande editore-cane-da-tartufi che fu Spagnol.
Gli editori di razza, da primi lettori, non esitano a entrare in dialettica sui libri. Gli altri accettano o respingono, e basta. In una lettera Valentino Bompiani suggerì con delicatezza a Eco di dare un’occhiata al sogno di Adso («un po’ lungo e insistito») e di rivedere la descrizione dell’incendio finale («non tutta utile»). Il semiologo-scrittore, pur con l’enorme stima che nutriva per il suo editore storico, respinse gentilmente al mittente quelle osservazioni. E intervenne pochissimo. Ma si sa che zio Val non era un tipo facile. Con i primi racconti del giovane Luigi Malerba reagì a modo suo, cioè da una parte manifestando la propria fiducia, dall’altra precisando che «non sempre l’invenzione regge tutto l’arco del racconto (...), la seconda parte è stanca. E allora si finisce sul piano bozzettistico». Malerba avrebbe accolto le proposte informando di avere «già fatto delle correzioni che mi sembrano risolutive».
Non fu vera tensione, com’era stata nel 1955 quella tra Pier Paolo Pasolini e Livio Garzanti a proposito di Ragazzi di vita. «Garzanti all’ultimo momento — scrisse Pasolini al poeta Vittorio Sereni — è stato preso da scrupoli moralistici, e si è smontato. Così mi trovo con delle bozze morte fra le mani, da correggere e da castrare. Una vera disperazione, credo di non essermi trovato mai in un più brutto frangente letterario...». L’editore aveva imposto all’autore un lavoro di «autocensura» sempre più radicale cui Pasolini, sulle prime, sembrò dedicarsi senza batter ciglio facendo uso dei puntini di sospensione per sostituire le parolacce. Anzi, dicendosi disponibile a intervenire con più decisione: «Potrei farne (naturalmente a malincuore) ancora di più, se Lei lo credesse opportuno». Nel giro di un mese, però, non si trattò più solo di usare i punti di sospensione, ma di attenuare, tagliare e ricucire, purgare, rifare: seguiranno, per Pasolini, «giorni atroci».
Può sembrare incredibile, ma ci sono scrittori finiti nella grande storia letteraria che di fronte a un’osservazione del loro editore non fanno alcuna resistenza, assecondano desideri e capricci anche a costo di vedersi violentare il proprio testo: sono casi che si trovano raccontati, tra mille altri, nel libro di Alberto Cadioli Le diverse pagine (il Saggiatore 2012), dove si affronta il ruolo dell’editore nella confezione del testo letterario. Si veda, per esempio, la mitezza con cui l’esordiente Beppe Fenoglio si sottopose alla revisione del duo Calvino-Vittorini (funzionario einaudiano il primo, direttore dei «Gettoni» il secondo). Nell’affaire Fenoglio, che Vittorini non amava particolarmente, c’è qualcosa di beffardo. Lo scrittore di Alba ubbidì ai desideri editoriali di rivedere La paga del sabato, secondo le puntuali richieste dell’editor Vittorini: «A me pare di avere abbastanza rinforzato e sostanziato i due ultimi capitoli che erano certamente i più deboli: vi ho aggiunto un episodio per ognuno dei due capitoli. E mi pare di esser riuscito ad eliminare in parte quel che di "ovvio" lamentava il Sig. Vittorini».
Neanche dopo la correzione, però, il romanzo piacque e dunque fu respinto, nonostante il parere cautamente positivo di Calvino, espresso per lettera nel ’50: «Mi sembra che tu abbia delle qualità fortissime; certo anche molti difetti, sei spesso trascinato nel linguaggio, tante piccole cose andrebbero corrette, molte cose urtano il gusto — specie nelle scene amorose — e non tutti i capitoli sono egualmente riusciti. Però sai centrare situazioni psicologiche particolarissime con una sicurezza che davvero mi sembra rara». Alla fine sarà don Elio a chiedere a Fenoglio di rinunciare al libro per concentrarsi sui racconti. E scrivendo a Pavese, anche l’autore sarà preso dal dubbio: «Ma non ha forse ragione, in fondo, il signor Vittorini?». No. Aveva torto marcio, e Fenoglio avrebbe dovuto insistere.
Paolo Di Stefano