Adriano Favole, la Lettura (Corriere della Sera) 8/9/2013, 8 settembre 2013
L’IMPERIALISMO DELL’OBESITA’
Con il termine globesity, cioè «globesità», lo studioso americano Sander Gilman (La strana storia dell’obesità, Il Mulino, 2011) ha definito l’ossessione per i corpi abbondanti che pervade l’Occidente contemporaneo. Una «epidemia di obesità» si starebbe pericolosamente diffondendo, portando con sé gravi rischi di malattie come il diabete, l’ipertensione, problemi cardiaci e vascolari. Espressioni forti come «guerra» e «lotta» all’obesità, un nemico o «virus» da sconfiggere, sono piuttosto diffusi sui media. Nel 2008 il Centre for Disease Control americano ha dato all’obesità lo statuto di «malattia», permettendo quindi la prescrizione di farmaci. In un mondo in cui, paradossalmente, una parte consistente dell’umanità soffre la fame, la «globesità» è enfatizzata come un problema prioritario.
Un articolo pubblicato sulla rivista «Science» il 23 agosto scorso, firmato da Ahima Rexford e Lazar Mitchell (The Health Risk of Obesity, vol. 341), mette in discussione non tanto il quadro allarmistico, quanto il modo in cui calcolare le condizioni di «sovrappeso» e di «obesità». L’articolo propone di rottamare niente meno che l’Indice di massa corporea (noto a livello scientifico come Bmi, Body Mass Index). Inventato nell’Ottocento dal matematico e criminologo belga Adolphe Quetelet, il Bmi categorizza le persone in «sottopeso», «normopeso», «sovrappeso» (una condizione già di rischio) e «obese», mediante un semplice rapporto tra il peso (in chilogrammi) e il quadrato dell’altezza (in metri). Nel tempo, la linea di confine tra «normali» e «sovrappeso» è stata spostata verso il basso: nel 1998 il confine venne ridotto da 27,5 a 25, con il risultato che ben 29 milioni di statunitensi entrarono a far parte dell’area di rischio. «Science» propone ora di adottare un indice molto più complesso, che tiene conto del rapporto tra massa grassa e massa muscolare, delle differenze di genere e di corporatura tra persone appartenenti a diverse popolazioni.
Le perplessità e i dubbi di «Science» non suonano nuovi per le scienze sociali. A partire almeno dagli anni Novanta, sociologi e antropologi, alla luce di ricerche comparative e nel quadro di riflessioni sul carattere «imperialista» di alcuni aspetti della biomedicina, hanno espresso riserve sul Bmi, sull’idea che sia in corso una «epidemia di obesità» e sulla definizione dell’obesità come malattia. A essere messe seriamente in discussione sono le pretese di definire in modo semplice, lineare e universale le caratteristiche di un corpo in salute, senza tenere conto delle variabili sociali, culturali e politiche. Ridurre il problema dell’obesità a un appetito vorace, a questioni genetiche o a scelte individuali è apparso come una diagnosi non solo errata e riduttiva, ma soprattutto generatrice di politiche sanitarie inefficaci quanto costose. Il Bmi, tarato su un corpo «ideale» costruito a partire da modelli occidentali, soffrirebbe insomma di una malattia concettuale che gli scienziati sociali definiscono «etnocentrismo». Misurare gli altri (letteralmente, in questo caso) con il metro della propria cultura, delle proprie concezioni (e mitologie) del corpo.
Un interessante testo al proposito è quello scritto da Gaia Cottino, antropologa culturale romana, in uscita nelle prossime settimane (Il peso del corpo. Un’analisi antropologica dell’obesità a Tonga, Unicopli). Dopo uno studio sugli aspetti politici dell’obesità alle Hawaii, Cottino ha compiuto un lungo lavoro di campo alle isole Tonga, nel Sud Pacifico. La scelta dell’Oceania è motivata dal fatto che questo «mare di isole» racchiude molti degli Stati che occupano i primi posti delle classifiche mondiali dell’obesità. Il rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità del 2000 collocava infatti ben otto nazioni oceaniane nei primi dieci posti — Nauru con il 94% della popolazione obesa, seguito da Samoa, Samoa Americane, Cook, Tonga, Polinesia francese, Stati federati di Micronesia, Niue. Perché questo «primato»?
Osservando la «globesità» a partire da uno specifico contesto, collocandosi cioè in una delle tante periferie del sistema globale, Cottino sfata diversi miti. In primo luogo molte lingue e culture fanno distinzioni tra «grasso» e «grosso». In rapporto agli europei, i polinesiani hanno in effetti una corporatura più robusta. La grande diffusione del rugby a partire dagli anni Ottanta ha ulteriormente «ingrossato» i polinesiani, per i quali l’essere grossi è un ideale corporeo che riflette le capacità dell’individuo di avere molte relazioni sociali (le quali comportano in primo luogo il mangiare insieme) e uno status elevato. La genetica, la storia, l’organizzazione sociale, i valori legati al cibo e alla corporeità, sono tutti fattori che insieme concorrono a modellare il corpo dei tongani. L’opportuna correzione o abolizione del Bmi contribuirà ad abbassare drasticamente il numero dei polinesiani sovrappeso o obesi — suonava ironico che i rugbysti All Blacks maori finissero nella categoria dei ciccioni a rischio!
Rimane il fatto che, negli ultimi decenni, l’aspettativa di vita in molte di queste isole è scesa, a causa di malattie come il diabete e i problemi cardio-vascolari. I risultati della ricerca di Gaia Cottino spostano l’attenzione dall’obesità alla malnutrizione. Il problema di fondo non è il controllo dell’appetito, né l’impatto della modernità (con cui i tongani si confrontano da più di due secoli). La storia ci dice che la preferenza per pasti abbondanti, per cibi grassi e unti, per corpi grandi — le donne tahitiane incantarono i marinai inglesi per la loro prosperità — è un tratto persistente delle culture di questi popoli. Ciò che è cambiato non è tanto la quantità di cibi, quanto l’infima qualità di quel junk food («cibo spazzatura») che proprio a partire dagli anni Ottanta ha cominciato a invadere le isole. Bevande ipercaloriche, costolette di agnello considerate come scarti dal mercato occidentale, carne in scatola e snack di varia natura sono entrati nella dieta quotidiana dei tongani e di molte altre popolazioni, deteriorando le condizioni di salute.
La miglior cura dell’obesità, insomma, consisterebbe in una revisione delle politiche alimentari globali, piuttosto che nell’imposizione di diete e nella prescrizione di farmaci.
Adriano Favole